L’ultimo
processo contro un alchimista fu istruito a Venezia, il martedì grasso
dell’anno 1888, lo stesso in cui Jack “the ripper” mieté le sue 5 vittime a
Londra. Fu grottesco. Esso si tenne dinanzi a una foltissima folla, ignara di
tutto. Fu una specie di sfida boriosa, che per un vezzo inutile, rischiava di
mettere in pericolo la segretezza perseguita in modo così maniacale dal gruppo,
e, con ciò, addirittura di far perdere la vita di centinaia di persone. Qualora
infatti agli alchimisti fosse venuto in mente che qualcuno dei presenti avesse
avuto idea, o intuito, di cosa si trattava in realtà, non avrebbero esitato a
ucciderli tutti, pur di evitare rischi. Una decisione delle solite, assurda,
come tante altre, del Fante di Coppe. Per fortuna loro nessuno dei presenti
seppe mai, o intuì, di cosa si trattava e pensarono solo di assistere a una
buffissima farsa in cui un ragazzino imberbe, pieno di spocchia, e dalla
loquacità non comune vista l’età, giudicava un anziano colpevole, secondo l’accusa,
impersonata da un uomo vigoroso e forte, sui cinquanta anni, e con accento
dell’est, di essersi fatto rubare qualcosa di prezioso. Una preziosa ricetta di
cucina, da quanto si poteva evincere. Il fatto che egli cercasse di non essere
condannato per il furto subito (e non uno realizzato), di qualcosa di poco
conto (una ricetta appunto), unito a quello che un giovanetto fosse,
indiscutibilmente, la più alta autorità in mezzo a una giuria di persone tutte
più anziane di lui, faceva morire dal ridere una platea divertita da questo
mondo al contrario. Su un lato della piazza, a ridosso di un muro, era stata eretta
una tribuna, su di essa, al centro, occupando lo scranno più alto e
stupendamente fregiato, il giovane. Egli era considerato la persona di maggior
saggezza e appellato “eminentissimo”. Sedute a semicerchio, con contegno
solenne, altre figure vestite in modo sfarzoso, ma sinistro, una ventina, molti
con lunghe barbe, e gli occhi piccoli e rugosi, non parlavano, ma ascoltavano
con attenzione, al massimo annuendo, o scuotendo il capo di tanto in tanto, o
emettendo un brontolio, durante i passaggi più interessanti della difesa o
dell’accusa. Il pubblico si divertiva e rideva a sentire il giovane giudice
rivolgersi all’imputato, decrepito e dalla lunga barba, con aspetto venerando,
in modo inquisitorio e irriverente. Formulava domande con un tono irrispettoso
ed incalzante, dandogli ripetutamente dell’imbecille e dell’incompetente, e
quello balbettava vergognosamente vaghe scuse, farneticando in preda al terrore
e alla confusione mentale, ammettendo, lui per primo, la sua cialtroneria. Il
processo era più una umiliazione pubblica che altro, e andò avanti per ore, di
notte, su una piazza illuminata da lanterne colorate, dove pure era posto un
alto patibolo, con una ghigliottina che “pareva vera”. Nel frattempo, attorno,
impazzava il carnevale e gente spensierata e allegra si baciava in pubblico,
urlava e scherzava gioviale e volgare.
Alla fine,
l’anziano fu condannato a morte e la sentenza letta lentamente, in latino, da
una voce baritonale di enorme fascino e solennità, che richiamò in modo
perentorio l’attenzione degli occasionali spettatori. Tutti ammutolirono mentre
il giudice si alzava in piedi per dare l’ordine dell’esecuzione, che fu eseguito
immediatamente, sul posto, tra le urla implacabili e il panico orribile
dell’anziano dalla lunga barba, che si dissolveva stridente tra il silenzio,
incredulo e un po’ sgomento di chi era vicino alla scena ed era rimasto
inquietato dalla verosimiglianza della disperazione del morituro, e le risate
di un pubblico sbronzo e festante più lontano e disattento, o sperso tra giochi
e amenità per tutto il resto della piazza e dei vicoli limitrofi. D’improvviso
un fortissimo scroscio di pioggia gelida sorprese tutti, proprio poco prima che
la mano malferma e anziana di un altro alchimista, mascherato con un lungo
becco da corvo, facesse cadere la pesante lama e la testa rotolasse. Il
pubblico, distratto dall’improvvido cambiamento climatico, abbandonò di corsa e
urlante il posto senza soffermarsi sul finale della supposta farsa, e sul fatto
che il capo, caduto nel cesto di crusca, non fosse finto. Settimane dopo dei
barcaioli trovarono un corpo senza vita e col capo mozzo in un canale. Si
indagò, ma nessuno ricollegò l’accaduto al processo carnascialesco, anche
perché il corpo non era corrotto e pareva essere deceduto il giorno stesso. Non
se ne venne a capo. Lo inumarono senza la testa, che non fu mai trovata.
L’anziano
giustiziato aveva una prodigiosa abilità per alcune branche dell’alchimia,
anche se non era in possesso di una formula di immortalità di gran pregio.
Aveva l’aspetto di un ottuagenario, e secondo la leggenda, s’era imbattuto
secoli prima con un elisir che lo faceva vivere in eterno, quasi per caso,
mentre si dedicava alla sua specialità prediletta. Difatti aveva creato già
molte fiale con spiriti intelligenti, vapori parlanti, anime estratte da
elementi della natura e poi intrappolate in ampolle o cristalli, con le quali
dialogava spesso e che interrogava sulle origini, la composizione e le sorti
dell’universo. Era anche un erudito demonologo che interrogava spiriti antichi
e spesso malvagi. All’inizio della sua carriera aveva iniziato studiando i
procedimenti per costruire un Golem, questa era la grande passione della sua
esistenza. Aveva sempre raggiunto eccellenti risultati, poi aveva notato gli
effetti di quella sostanza che non lo faceva invecchiare più, ed aveva deciso
di fabbricarla ed assumerla costantemente, cambiando il suo proposito originario,
che voleva seguire i ritmi della natura, per l’insorgere in lui di un acuto e
implacabile terrore della morte. C’è da credere che dai suoi dialoghi con gli
spiriti della Natura non avesse ricevuto buone notizie e avesse saputo di un
destino che lo atterriva, ma non lo rivelò mai a nessuno. Neppure il giorno del
processo disse cose precise, farfugliò solo incoerenze e allusioni che non
convinsero nessuno della necessità di una assoluzione e meno che mai il crudele
giudice. Il miglior argomento a sua difesa fu il terrore con cui reagì alla
lettura della sua condanna, e gli strattoni e pianti, le grida e le suppliche
che si spensero solo sul filo della mannaia. Lasciò tutti sgomenti, tranne il
giudice, che rise di gusto e tutti dietro a lui, forse per piaggeria, mentre la
pioggia li batteva impietosa come la ghigliottina.
Il fatto è
che essendo molto anziano, dopo vari secoli di vani tentativi per perfezionare
la sua formula dell’elisir di lunga vita, si era messo, ed era riuscito, a
fabbricare un famiglio che lo aiutasse nei lavori domestici e anche nella
preparazione della sua ricetta, che per sua disgrazia doveva assumente
settimanalmente e tardava parecchi giorni a preparare. Pur andando avanti da
almeno due secoli, sperimentando in condizioni massacranti, chiuso nel
laboratorio, a volte per giorni interi, senza uscire mai, dormiva e mangiava
lì, non aveva trovato migliorie significative, anzi nulle. Il famiglio era
stato creato coi mezzi a disposizione nella bottega e nel giardino accanto,
ricco di argilla, ma non aveva le forze per maneggiare molto materiale, né la
possibilità di acquistarne e accumularne, riuscendo al contempo a seguire la
sua ricetta d’immortalità.
Perciò si
limitò a raccogliere, in faticose e varie sedute, un piccolo ammasso
di creta (si suppone dal colore dell’essere e la conformazione geologica della
terra che lo circondava, ma il procedimento corretto lo sapeva solo lui) e ne
fece un piccolo e bitorzoluto servitore, dai denti radi, la testa
sproporzionata. Un famiglio resistente, ma di braccia e gambe corte,
un’intelligenza che sfociava più sulla furbizia che altro. Un essere del genere
ha una aspettativa di vita di qualche decennio, lo fece in modo tale che gli
prendesse un infarto secco a un certo punto, così da non essere costretto alla
sua soppressione, dato che di accudirlo in agonia non se ne parlava di certo.
L’esserino era molto servile, ed utile, ma dopo anni di schiavitù, iniziò,
curiosamente, a pensare con una certa autonomia, si era scottato varie volte in
laboratorio, sapeva bene cosa fosse il dolore, forse ne aveva fatto tesoro, e
si era posto domande. Aveva fabbricato di tutto, anche oro, era molto destro,
aveva visto, in varie occasioni, cosa si può ottenere da esso, perché era lui a
realizzare le commissioni per il padrone, e, soprattutto, aveva visto, girando
per il mercato mentre faceva le compere, che con esso si può addirittura
ottenere l’amore delle donne e la loro compagnia. Non c’era cosa che
desiderasse e lo incuriosisse di più. Aveva una tale attrazione verso le donne,
che ne chiedeva spesso notizie al vecchio padrone, ma quello, dopo delle prime
spiegazioni, si irritava per l’insistenza del piccolo, che gli faceva tornare
in mente bei ricordi (e brutti pure) ma in ogni caso gli ricordava che egli,
ora, così come stava messo, non avrebbe potuto andare con una di loro. Gli
promise comunque che se lo avesse aiutato bene lo avrebbe ricompensato e
sarebbero andati entrambi a donne, a spese sue. Quello lavorò ancora più
alacremente, ma il tempo passava, i risultati non arrivavano, anno dopo anno,
il maestro era divenuto persino più scorbutico e distante dalle sue petulanti
richieste. Il maestro non moriva, ma lui stava diventando vecchio, sentiva già
qualche acciacco, a volte si appisolava, fantasticava, e invece di andarsene in
giro, come era solito fare da giovane, quando il maestro parlava coi suoi
spiriti, che trovava oltremodo noiosi, una parola ogni quarto d’ora, col tempo,
aveva iniziato ad origliare. Anche lui aveva ascoltato qualcosa di spaventoso
allora, tanto che una notte forzò la sua natura fino a riuscire a fare qualcosa
di incredibile per lui, che da quando era nato era sempre stato, come era stato
creato per essere, così succube e fedele al padrone. Di soppiatto, mentre il
vecchio dormiva, gli rubò la ricetta che fabbricava da mattino a sera e da sera
a mattino. Poi assunse il farmaco della vita eterna. Avrebbe saputo rifarla ad
occhi chiusi ora! Al giorno seguente il vegliardo si trovò da solo. Notò che
alcune carte erano sottosopra, capì che il servitore aveva appreso quello che
gli mancava per essere autonomo nella preparazione del farmaco e se l’era
svignata. Per paura di essere incriminato e processato fece la scelta più
sbagliata, tacque del furto, sperando che i rimorsi e la fedeltà con cui lo
aveva plasmato e legato, lo facessero tornare da lui, ma ciò non avvenne mai.
Il piccoletto anzi ormai godeva della vita che aveva sempre sognato, autonomo,
lavorava a ritmo suo, senza attendere le lungaggini del vecchio, fabbricava la
sostanza, la proponeva in dialoghi riservati, la faceva provare per un po’, poi
si faceva pagare da clienti entusiasti. Col molto danaro che aveva ottenuto
aveva cambiato vita, ormai era ben vestito, cappotto, stivaletti, cappello, il
barbiere gli pettinava i capelli radi, e lo impomatava per bene, le donne
adoravano la sua generosità, andavano spesso con lui, ed egli era ben
considerato ed apprezzato.
In poco
tempo, però, la situazione per la segretezza dell’elisir, era enormemente
peggiorata, e quando gli alchimisti ne ebbero notizia, si capì immediatamente
la gravità della stessa: essa pareva essere sul punto di sfuggire di mano. Un
tale, un tipo piccolo e gobbo, con un testone calvo, i denti radi e una faccia
da lacchè, affermava di avere un elisir che mantiene sempre giovani. Poteva
essere una bufala delle solite, ma il tizio chiedeva cifre esorbitanti per il
prodotto, era schivo e si rivolgeva casa per casa solo a borghesi ricchi,
nobili, aristocratici, cosa che insospettì i componenti del Circolo e li spinse
ad indagare. Uno di loro ebbe notizia di questa storia da un nobile che
frequentava fingendo la sua vita normale, gli si accapponò la pelle e volle
vederci chiaro, riferì immediatamente tutto agli altri. In breve scoprirono la
verità. Furono implacabili. Il famiglio sotto tortura dovette meticolosamente
rivelare tutto: motivazioni, scopi, fatti, e soprattutto a quanti soggetti
avesse venduto il prodotto e a quanti ne avesse parlato. Questi soggetti furono
uccisi tutti, poi si realizzarono altre ricerche per sapere se il ladro avesse
omesso di dire qualcosa di significativo. Nonostante non uscisse alcuna nuova,
il Circolo decise di sterminare comunque anche tutti coloro che avevano avuto
contatti, di ogni genere, con l’improvvisato alchimista. In un breve arco di
tempo furono avvelenate una trentina di persone, la maggior parte appartenente
alla ricca borghesia o alla nobiltà. Morirono tutti all’istante, quindi nessuno
di loro aveva assunto la sostanza. Il famiglio, quando si ritenne che era stata
fatta piazza pulita di coloro che potevano sapere o sospettare qualcosa, fu
giustiziato, ma la sua morte fu, insensatamente, lenta e dolorosa, e sempre per
scelta autonoma dell’alchimista di più alto grado. Insensatamente perché le sue
sofferenze non potevano spaventare, né fungere da deterrente verso nessuno,
dato che tutto fu realizzato nella massima segretezza. Solo poi il vecchio fu
processato e decapitato.
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