Blog successivo all'uscita del Romanzo "Come Attraverso il Fuoco" di Andrea Ligni (Pseudonimo di: Virio Guido Stipa) e creato per dare chiarimenti sullo stesso e pubblicare racconti e opinioni dell'autore.
mercoledì 5 settembre 2012
martedì 4 settembre 2012
mercoledì 29 agosto 2012
CAPITOLO II: L’ultima condanna a morte
L’ultimo
processo contro un alchimista fu istruito a Venezia, il martedì grasso
dell’anno 1888, lo stesso in cui Jack “the ripper” mieté le sue 5 vittime a
Londra. Fu grottesco. Esso si tenne dinanzi a una foltissima folla, ignara di
tutto. Fu una specie di sfida boriosa, che per un vezzo inutile, rischiava di
mettere in pericolo la segretezza perseguita in modo così maniacale dal gruppo,
e, con ciò, addirittura di far perdere la vita di centinaia di persone. Qualora
infatti agli alchimisti fosse venuto in mente che qualcuno dei presenti avesse
avuto idea, o intuito, di cosa si trattava in realtà, non avrebbero esitato a
ucciderli tutti, pur di evitare rischi. Una decisione delle solite, assurda,
come tante altre, del Fante di Coppe. Per fortuna loro nessuno dei presenti
seppe mai, o intuì, di cosa si trattava e pensarono solo di assistere a una
buffissima farsa in cui un ragazzino imberbe, pieno di spocchia, e dalla
loquacità non comune vista l’età, giudicava un anziano colpevole, secondo l’accusa,
impersonata da un uomo vigoroso e forte, sui cinquanta anni, e con accento
dell’est, di essersi fatto rubare qualcosa di prezioso. Una preziosa ricetta di
cucina, da quanto si poteva evincere. Il fatto che egli cercasse di non essere
condannato per il furto subito (e non uno realizzato), di qualcosa di poco
conto (una ricetta appunto), unito a quello che un giovanetto fosse,
indiscutibilmente, la più alta autorità in mezzo a una giuria di persone tutte
più anziane di lui, faceva morire dal ridere una platea divertita da questo
mondo al contrario. Su un lato della piazza, a ridosso di un muro, era stata eretta
una tribuna, su di essa, al centro, occupando lo scranno più alto e
stupendamente fregiato, il giovane. Egli era considerato la persona di maggior
saggezza e appellato “eminentissimo”. Sedute a semicerchio, con contegno
solenne, altre figure vestite in modo sfarzoso, ma sinistro, una ventina, molti
con lunghe barbe, e gli occhi piccoli e rugosi, non parlavano, ma ascoltavano
con attenzione, al massimo annuendo, o scuotendo il capo di tanto in tanto, o
emettendo un brontolio, durante i passaggi più interessanti della difesa o
dell’accusa. Il pubblico si divertiva e rideva a sentire il giovane giudice
rivolgersi all’imputato, decrepito e dalla lunga barba, con aspetto venerando,
in modo inquisitorio e irriverente. Formulava domande con un tono irrispettoso
ed incalzante, dandogli ripetutamente dell’imbecille e dell’incompetente, e
quello balbettava vergognosamente vaghe scuse, farneticando in preda al terrore
e alla confusione mentale, ammettendo, lui per primo, la sua cialtroneria. Il
processo era più una umiliazione pubblica che altro, e andò avanti per ore, di
notte, su una piazza illuminata da lanterne colorate, dove pure era posto un
alto patibolo, con una ghigliottina che “pareva vera”. Nel frattempo, attorno,
impazzava il carnevale e gente spensierata e allegra si baciava in pubblico,
urlava e scherzava gioviale e volgare.
Alla fine,
l’anziano fu condannato a morte e la sentenza letta lentamente, in latino, da
una voce baritonale di enorme fascino e solennità, che richiamò in modo
perentorio l’attenzione degli occasionali spettatori. Tutti ammutolirono mentre
il giudice si alzava in piedi per dare l’ordine dell’esecuzione, che fu eseguito
immediatamente, sul posto, tra le urla implacabili e il panico orribile
dell’anziano dalla lunga barba, che si dissolveva stridente tra il silenzio,
incredulo e un po’ sgomento di chi era vicino alla scena ed era rimasto
inquietato dalla verosimiglianza della disperazione del morituro, e le risate
di un pubblico sbronzo e festante più lontano e disattento, o sperso tra giochi
e amenità per tutto il resto della piazza e dei vicoli limitrofi. D’improvviso
un fortissimo scroscio di pioggia gelida sorprese tutti, proprio poco prima che
la mano malferma e anziana di un altro alchimista, mascherato con un lungo
becco da corvo, facesse cadere la pesante lama e la testa rotolasse. Il
pubblico, distratto dall’improvvido cambiamento climatico, abbandonò di corsa e
urlante il posto senza soffermarsi sul finale della supposta farsa, e sul fatto
che il capo, caduto nel cesto di crusca, non fosse finto. Settimane dopo dei
barcaioli trovarono un corpo senza vita e col capo mozzo in un canale. Si
indagò, ma nessuno ricollegò l’accaduto al processo carnascialesco, anche
perché il corpo non era corrotto e pareva essere deceduto il giorno stesso. Non
se ne venne a capo. Lo inumarono senza la testa, che non fu mai trovata.
L’anziano
giustiziato aveva una prodigiosa abilità per alcune branche dell’alchimia,
anche se non era in possesso di una formula di immortalità di gran pregio.
Aveva l’aspetto di un ottuagenario, e secondo la leggenda, s’era imbattuto
secoli prima con un elisir che lo faceva vivere in eterno, quasi per caso,
mentre si dedicava alla sua specialità prediletta. Difatti aveva creato già
molte fiale con spiriti intelligenti, vapori parlanti, anime estratte da
elementi della natura e poi intrappolate in ampolle o cristalli, con le quali
dialogava spesso e che interrogava sulle origini, la composizione e le sorti
dell’universo. Era anche un erudito demonologo che interrogava spiriti antichi
e spesso malvagi. All’inizio della sua carriera aveva iniziato studiando i
procedimenti per costruire un Golem, questa era la grande passione della sua
esistenza. Aveva sempre raggiunto eccellenti risultati, poi aveva notato gli
effetti di quella sostanza che non lo faceva invecchiare più, ed aveva deciso
di fabbricarla ed assumerla costantemente, cambiando il suo proposito originario,
che voleva seguire i ritmi della natura, per l’insorgere in lui di un acuto e
implacabile terrore della morte. C’è da credere che dai suoi dialoghi con gli
spiriti della Natura non avesse ricevuto buone notizie e avesse saputo di un
destino che lo atterriva, ma non lo rivelò mai a nessuno. Neppure il giorno del
processo disse cose precise, farfugliò solo incoerenze e allusioni che non
convinsero nessuno della necessità di una assoluzione e meno che mai il crudele
giudice. Il miglior argomento a sua difesa fu il terrore con cui reagì alla
lettura della sua condanna, e gli strattoni e pianti, le grida e le suppliche
che si spensero solo sul filo della mannaia. Lasciò tutti sgomenti, tranne il
giudice, che rise di gusto e tutti dietro a lui, forse per piaggeria, mentre la
pioggia li batteva impietosa come la ghigliottina.
Il fatto è
che essendo molto anziano, dopo vari secoli di vani tentativi per perfezionare
la sua formula dell’elisir di lunga vita, si era messo, ed era riuscito, a
fabbricare un famiglio che lo aiutasse nei lavori domestici e anche nella
preparazione della sua ricetta, che per sua disgrazia doveva assumente
settimanalmente e tardava parecchi giorni a preparare. Pur andando avanti da
almeno due secoli, sperimentando in condizioni massacranti, chiuso nel
laboratorio, a volte per giorni interi, senza uscire mai, dormiva e mangiava
lì, non aveva trovato migliorie significative, anzi nulle. Il famiglio era
stato creato coi mezzi a disposizione nella bottega e nel giardino accanto,
ricco di argilla, ma non aveva le forze per maneggiare molto materiale, né la
possibilità di acquistarne e accumularne, riuscendo al contempo a seguire la
sua ricetta d’immortalità.
Perciò si
limitò a raccogliere, in faticose e varie sedute, un piccolo ammasso
di creta (si suppone dal colore dell’essere e la conformazione geologica della
terra che lo circondava, ma il procedimento corretto lo sapeva solo lui) e ne
fece un piccolo e bitorzoluto servitore, dai denti radi, la testa
sproporzionata. Un famiglio resistente, ma di braccia e gambe corte,
un’intelligenza che sfociava più sulla furbizia che altro. Un essere del genere
ha una aspettativa di vita di qualche decennio, lo fece in modo tale che gli
prendesse un infarto secco a un certo punto, così da non essere costretto alla
sua soppressione, dato che di accudirlo in agonia non se ne parlava di certo.
L’esserino era molto servile, ed utile, ma dopo anni di schiavitù, iniziò,
curiosamente, a pensare con una certa autonomia, si era scottato varie volte in
laboratorio, sapeva bene cosa fosse il dolore, forse ne aveva fatto tesoro, e
si era posto domande. Aveva fabbricato di tutto, anche oro, era molto destro,
aveva visto, in varie occasioni, cosa si può ottenere da esso, perché era lui a
realizzare le commissioni per il padrone, e, soprattutto, aveva visto, girando
per il mercato mentre faceva le compere, che con esso si può addirittura
ottenere l’amore delle donne e la loro compagnia. Non c’era cosa che
desiderasse e lo incuriosisse di più. Aveva una tale attrazione verso le donne,
che ne chiedeva spesso notizie al vecchio padrone, ma quello, dopo delle prime
spiegazioni, si irritava per l’insistenza del piccolo, che gli faceva tornare
in mente bei ricordi (e brutti pure) ma in ogni caso gli ricordava che egli,
ora, così come stava messo, non avrebbe potuto andare con una di loro. Gli
promise comunque che se lo avesse aiutato bene lo avrebbe ricompensato e
sarebbero andati entrambi a donne, a spese sue. Quello lavorò ancora più
alacremente, ma il tempo passava, i risultati non arrivavano, anno dopo anno,
il maestro era divenuto persino più scorbutico e distante dalle sue petulanti
richieste. Il maestro non moriva, ma lui stava diventando vecchio, sentiva già
qualche acciacco, a volte si appisolava, fantasticava, e invece di andarsene in
giro, come era solito fare da giovane, quando il maestro parlava coi suoi
spiriti, che trovava oltremodo noiosi, una parola ogni quarto d’ora, col tempo,
aveva iniziato ad origliare. Anche lui aveva ascoltato qualcosa di spaventoso
allora, tanto che una notte forzò la sua natura fino a riuscire a fare qualcosa
di incredibile per lui, che da quando era nato era sempre stato, come era stato
creato per essere, così succube e fedele al padrone. Di soppiatto, mentre il
vecchio dormiva, gli rubò la ricetta che fabbricava da mattino a sera e da sera
a mattino. Poi assunse il farmaco della vita eterna. Avrebbe saputo rifarla ad
occhi chiusi ora! Al giorno seguente il vegliardo si trovò da solo. Notò che
alcune carte erano sottosopra, capì che il servitore aveva appreso quello che
gli mancava per essere autonomo nella preparazione del farmaco e se l’era
svignata. Per paura di essere incriminato e processato fece la scelta più
sbagliata, tacque del furto, sperando che i rimorsi e la fedeltà con cui lo
aveva plasmato e legato, lo facessero tornare da lui, ma ciò non avvenne mai.
Il piccoletto anzi ormai godeva della vita che aveva sempre sognato, autonomo,
lavorava a ritmo suo, senza attendere le lungaggini del vecchio, fabbricava la
sostanza, la proponeva in dialoghi riservati, la faceva provare per un po’, poi
si faceva pagare da clienti entusiasti. Col molto danaro che aveva ottenuto
aveva cambiato vita, ormai era ben vestito, cappotto, stivaletti, cappello, il
barbiere gli pettinava i capelli radi, e lo impomatava per bene, le donne
adoravano la sua generosità, andavano spesso con lui, ed egli era ben
considerato ed apprezzato.
In poco
tempo, però, la situazione per la segretezza dell’elisir, era enormemente
peggiorata, e quando gli alchimisti ne ebbero notizia, si capì immediatamente
la gravità della stessa: essa pareva essere sul punto di sfuggire di mano. Un
tale, un tipo piccolo e gobbo, con un testone calvo, i denti radi e una faccia
da lacchè, affermava di avere un elisir che mantiene sempre giovani. Poteva
essere una bufala delle solite, ma il tizio chiedeva cifre esorbitanti per il
prodotto, era schivo e si rivolgeva casa per casa solo a borghesi ricchi,
nobili, aristocratici, cosa che insospettì i componenti del Circolo e li spinse
ad indagare. Uno di loro ebbe notizia di questa storia da un nobile che
frequentava fingendo la sua vita normale, gli si accapponò la pelle e volle
vederci chiaro, riferì immediatamente tutto agli altri. In breve scoprirono la
verità. Furono implacabili. Il famiglio sotto tortura dovette meticolosamente
rivelare tutto: motivazioni, scopi, fatti, e soprattutto a quanti soggetti
avesse venduto il prodotto e a quanti ne avesse parlato. Questi soggetti furono
uccisi tutti, poi si realizzarono altre ricerche per sapere se il ladro avesse
omesso di dire qualcosa di significativo. Nonostante non uscisse alcuna nuova,
il Circolo decise di sterminare comunque anche tutti coloro che avevano avuto
contatti, di ogni genere, con l’improvvisato alchimista. In un breve arco di
tempo furono avvelenate una trentina di persone, la maggior parte appartenente
alla ricca borghesia o alla nobiltà. Morirono tutti all’istante, quindi nessuno
di loro aveva assunto la sostanza. Il famiglio, quando si ritenne che era stata
fatta piazza pulita di coloro che potevano sapere o sospettare qualcosa, fu
giustiziato, ma la sua morte fu, insensatamente, lenta e dolorosa, e sempre per
scelta autonoma dell’alchimista di più alto grado. Insensatamente perché le sue
sofferenze non potevano spaventare, né fungere da deterrente verso nessuno,
dato che tutto fu realizzato nella massima segretezza. Solo poi il vecchio fu
processato e decapitato.
CAPITOLO I: Gli Alchimisti Immortali
Vorrei realizzare una serie di racconti su un unico tema, è da tempo che pensavo di metterci mano e propongo qui le prime bozze di questo nuovo lavoro che spero di poter sviluppare adeguatamente in futuro.
PREMESSA
(e spiegazioni propedeutiche)
Sto per rivelare informazioni ignote a
chiunque e secondo alcuni non dovrei farlo. Mi riterranno un traditore, ma non
mi importa. Comunque sia è molto probabile che chi leggerà lo scritto non
crederà al suo contenuto e lo relegherà tra le fantasie, quindi il danno sarebbe
alla fin fine esiguo. Ciò nonostante per me significherebbe quantomeno un
processo, e non è da escludersi una condanna, e questo anche se non metterò in
pericolo nessun mio collega, e non farò alcun nome, né darò piste che possano
portare all’identificazione di chicchessia. Il riserbo in cui è relegato il
mondo a cui anche io appartengo, ha qualcosa di davvero sinistro e l’imposizione
che si subisce da secoli è per me divenuta intollerabile. Non ho mai avuto la
minima simpatia per la maggior parte dei miei colleghi e ho deciso di
ribellarmi alle loro regole miserabili e violente. Mi chiamano “La Temperanza”,
per mantenere l’anonimato userò questo nome, cosa che non ho mai fatto, e
parlerò di me in terza persona, raccontando da esterno tutte le vicende, anche
quelle che ho vissuto direttamente.
L’obiettivo
sommo, per gli alchimisti, anche se, come è noto, non l’unico, è raggiungere
l’immortalità. Possibilmente accompagnata dall’eterna giovinezza. Traguardo
massimo per l’essere umano. Checché se ne possa pensare, alcuni di loro ci sono
riusciti e non esiste un unico modo per arrivarci. A seconda del cammino
intrapreso, i risultati, gli effetti, possono differire anche di molto.
Ancor più
sorprendentemente, non tutti gli alchimisti sono ossessionati da questo scopo,
alcuni ritengono, infatti, che non saprebbero sopportare una vita perpetua, e
anche quando sarebbero in grado di conseguire tale risultato, preferiscono
seguire i ritmi della natura.
Gli
alchimisti oggi in possesso di una formula del genere sono oltre un paio di
dozzine, ma non si può escludere con certezza che ci siano nuovi o persino
vecchi appartenenti al gruppo finora sconosciuti.
Essi, in
genere, ma non necessariamente, si conoscono e riconoscono tra loro, (e solo
tra di loro) anche e banalmente perché, avendo un interesse comune, non è raro
che si incontrino nei pochi posti dove esso può essere coltivato seriamente,
per esempio determinate biblioteche. Il fatto di vedere taluni volti
ripetutamente nel corso di decenni, e poi il vederli riapparire per il mondo
pressoché immutati nel corso di secoli, dissipa ogni dubbio rispetto al fatto
che i soggetti a cui appartengono siano riusciti nel loro scopo. Questa identificazione
è possibile con certezza solo a chi abbia una vita eterna, gli altri molto
difficilmente possono accorgersi di qualcosa.
Ogni
alchimista ha, ovviamente, a disposizione solo l’arco della propria vita per
raggiungere il traguardo. È quindi ovvio che, la maggior parte di chi si
cimenta, fallisce e muore prima di approssimarsi a un risultato che gli dia,
quantomeno, il tempo necessario per proseguire e perfezionare le scoperte.
Tutti gli
alchimisti, anche quelli di maggior successo, continuano, nei secoli, a
studiare, posto che nessuno ha una ricetta che sia immune da miglioramenti. E
devono, inoltre, occuparsi delle sorti successive alla fine del mondo e della
storia umana, questione che li occupa e preoccupa in modo angosciante.
Benché
studino e ricerchino in genere alacremente e con impegno per tutta l’esistenza,
raggiunto il traguardo principale, non pubblicano più nessuno dei loro
risultati, quindi le uniche fonti a disposizione di chi intraprende il cammino
ex novo, sono solo studi anteriori alla realizzazione dell’opera e mai testi
che ne illustrino uno dei vari procedimenti completi. Ciascuno deve arrivare da
sé al risultato cercato, iniziando, tutto sommato, dagli studi di chi ha
fallito o non ha completato.
Tutte le
culture del globo hanno alchimisti, ma non tutte hanno un alchimista immortale
nelle loro file, alcuni posti, invece, hanno una concentrazione
straordinariamente maggiore di essi. Ciò dovrebbe dipendere unicamente da
questioni culturali e dal fatto che i testi lì a disposizione, o l’interesse
generale, vuoi per la materia, vuoi per l’ottenimento dell’immortalità, sono
maggiori che in altri posti.
Ogni
alchimista segue il suo personale percorso e metodo per la fabbricazione di ciò
che gli conferisce il dono dell’immortalità, cosa che parrebbe portare alla
creazione degli oggetti o delle sostanze più disparate: cristalli, liquidi da
ingerire o dove immergersi, creme, maschere, fuochi, polveri, persino luoghi, e
altro ancora, ma non può a priori escludersi che alcuni di loro abbiano
trovato, autonomamente, un procedimento comune, o analogo, per ottenere il
prodotto finito che permette loro di vivere in eterno.
Comunque sia
nessun immortale sa nulla di specifico e preciso riguardo alle tecniche degli
altri, posto che assolutamente tutti conservano il più maniacale e assoluto
riserbo sui loro metodi e non ne parlano con nessuno, neppure con i colleghi. I
meno abili non hanno nulla da dire a quelli più abili, e questi nessun
vantaggio ad ascoltarli e tantomeno ad insegnare.
Un alchimista,
in genere, vive attanagliato da molte paure.
La reciproca
conoscenza, tra alchimisti di diverso rango e fortuna, non suppone rischi per
chi più sa, poiché chi più sa è al contempo più forte di chi sa meno, non può
quindi subire un attacco da essi o essere costretto a rivelare quello che
sappia con la violenza. In genere essi sono comunque estremamente diffidenti
anche tra loro.
Le
differenze tra alchimisti dipendono solo dal fatto che i risultati ultimi
possono variare anche di molto quanto a effetti e potere e ogni formula può
darne di più o meno estesi. Le ricette migliori conferiscono immortalità e
ringiovanimento graduabile a piacere dall’alchimista, addirittura di adottare
forme a piacimento. Le altre hanno limiti maggiori: alcune permettono di
ringiovanire con meno facilità e discrezione, altre non permettono praticamente
il ringiovanimento, ma solo una sostanziale stasi del deterioramento della
materia.
Ad ogni modo
va precisato che una vera formula d’immortalità non frena meramente l’invecchiamento
allungando la vita, ma inverte il deterioramento progressivo del fisico, anche
se di poco, e riporta l’organismo a uno stato anteriore a quello in cui si
trova. Se non c’è questo effetto, anche qualora la scoperta porti una
sostanziale e definitiva immutabilità della persona, egli non potrà affermare
di aver raggiunto una formula valida e non sarà a pieno titolo nel gruppo degli
alchimisti immortali. Avrà comunque il vantaggio di un, addirittura pressoché
infinito, serbatoio di tempo per continuare le sue ricerche. Di ricette dubbie
ce ne sono varie, ma non c’è chiarezza rispetto ad esse.
Pochissimi
alchimisti vivono eternamente e con aspetto giovane, i più possono proseguire
la loro esistenza in modo perpetuo conservando approssimativamente l’aspetto di
quando hanno completato la ricetta, senza invecchiare di un giorno (o meglio
ringiovanendo di pochissimo ogni volta che facciano uso della loro scoperta).
Per questo la maggior parte degli alchimisti sogliono essere anziani, o
addirittura decrepiti, di aspetto. In genere infatti per ottenere dei risultati
apprezzabili ci vogliono decenni interi di sperimentazioni, ed è raro il caso
di chi sia approdato all’immortalità, anche se non alla eterna giovinezza, ad
una età compresa tra i trenta e i sessanta anni, e comunque mai sotto i trenta.
Da ciò si
deduce che i migliori alchimisti, e quindi i più importanti e prestigiosi,
hanno aspetto di ragazzi e non di anziani. Un alchimista maturo, ma non
anziano, avrà il vanto, su questi ultimi, di essere approdato al raggiungimento
della vita eterna in un arco di studi più breve che gli altri, benché anche
loro con il limite di non aver trovato la formula che comprenda il
ringiovanimento.
Si deduce
che essere giovani, nel loro gruppo, è comunque segno di maggiore prestigio e
rispetto.
Gli
alchimisti in possesso della formula più completa hanno quindi aspetto di
ragazzi, vivono in un arco di vita di solito compreso tra i sedici e i trenta
anni, poi tornano indietro, più o meno a piacimento, anche lì a seconda delle
loro abilità e della facilità d’uso del loro ritrovato. Alcuni possono, più o
meno, assumere l’aspetto che preferiscono a piacimento.
Gli
alchimisti più giovani hanno anche il vantaggio di poter usare meno
frequentemente il procedimento o il farmaco per la vita eterna, posto che
possono far trascorrere molti anni e maturare restando in forze e poi decidere
di tornare al punto che preferiscano del loro sviluppo. I più decrepiti,
invece, posso aver bisogno di usare la loro formula mensilmente e persino
settimanalmente.
La formula
non è assunta una sola volta e per sempre nella vita, ma l’operazione deve
essere ripetuta a scadenze che possono però variare di molto, da intervalli di
poche settimane a secoli.
Un
alchimista non si dedica solo all’immortalità, ma, nel corso dei secoli, e a
seconda delle sue doti, sviluppa anche altre scoperte, tra cui soprattutto
trasmutazione degli elementi.
Tutti gli
alchimisti sono, per tendenza tipica causata dalla loro scoperta, estremamente
edonisti ed egoisti, e per questo non salvano nessun altro essere, tranne loro
stessi, dalla morte: non vorrebbero mai correre il rischio di rinunciare alla
loro comodità personale per il bene di nessuno. Ma solo i migliori spendono la
vita in modo pressoché spensierato e davvero piacevole. Molti sono, infatti,
costretti a una serva e continua elaborazione della loro ricetta, cosa che
limita molto la loro capacità di azione, movimento e libertà, nonché salute
mentale. È per questo che la formula è da giudicarsi migliore, oltre che per
l’effetto che sviluppa, anche per una più breve e snella elaborazione e
facilità d’uso.
Alcuni
anziani, vuoi anche per difficoltà fisiche, devono stare costantemente
all’opera per non perdere la propria vita, e alcuni sono da secoli alla ricerca
di miglioramenti che permettano loro di ringiovanire progressivamente sino a
uno stato che li metta fuori pericolo, ma non li trovano. Essi sono molto
scherniti dagli alchimisti di maggior successo e talento, che li vedono come
dei miserabili e degli imbecilli, relegati a una perenne esistenza da “schiavi
dei fornelli” (così vengono chiamati). Costoro a volte non vengono neppure
presi in considerazione e interpellati qualora ci sia da prendere una decisone
comune.
Un
alchimista può essere ucciso e decedere come qualunque altro essere umano, è
solo molto più resistente alla morte, vecchi compresi. È necessario un forte
trauma per farlo fuori: taglio della testa per esempio. Possiede doti
eccezionali come una sorprendente resistenza al soffocamento o l’annegamento,
ed è del tutto immune ai veleni e alle contaminazioni.
Nel caso
degli alchimisti giovani il loro vigore è straordinario, posto che la formula
suole, in genere, conferire al corpo il miglior tono che esso sia programmato
ad avere.
Con la
conquista dell’immortalità, per una inspiegabile tendenza insita forse nel
processo stesso, l’alchimista diviene terrorizzato dalla possibilità di perdere
la propria vita, e questa assume un valore mille volte maggiore di quello, già
incommensurabile, che ha per ogni essere umano. Ogni alchimista, quindi,
protegge se e la sua vita in un modo che ha del maniacale o paranoico e con
ogni mezzo e da ogni cosa. Questo pensiero lo assilla costantemente ed evita
ogni tipo di rischio inutile in modo pressoché fobico. Non è neppure pensabile
che un alchimista immortale si sacrifichi per nessuna ragione, causa, ideale,
sentimento.
Oltre alla
vita un alchimista è un maniaco conservatore della sua integrità fisica,
giacché, seppure la ricetta lo rigenera in modo anche stupefacente da
cicatrici, bruciature, ferite e rotture, nel corso dei secoli, l’accumularsi di
quelle troppo profonde per rigenerarsi, lo renderebbero inguardabile e
sofferente.
L’esorbitante
importanza della propria vita per un immortale lo spinge, al contempo, a
sottostimare quella degli altri esseri umani, che ormai vede come distanti e
appartenenti a un’altra specie animale. E per salvare la sua vita o evitare che
venga messa in pericolo sono, in genere, ben disposti a ricorrere all’omicidio.
Alcuni lo sono anche per mere convenienze di minor importanza.
Un
alchimista immortale desidera non dare nell’occhio e non far appurare a nessuno
la propria identità, che assume e varia insieme al paese e ai luoghi di
residenza in modo da non destare sospetti e a piacimento.
Evitano di
dover entrare in luoghi, tipo prigioni, dove potrebbero essere costretti a
spendere molti anni e forse anche correre il rischio di essere scoperti dai
mortali e magari costretti a svelare la formula.
Essendo
soggetti alle leggi fisiche comuni agli esseri umani, evitano anche di
infilarsi in luoghi quali grotte o sommergibili, dove potrebbero correre il
rischio di essere confinati per eoni e non riuscire a uscire, o addirittura di
morire a causa dell’impossibilità di realizzare la ricetta per il
ringiovanimento qualora ciò si rendesse necessario.
Un
alchimista non parla mai a nessuno di nulla che concerna la propria formula,
tiene tutto quello che la riguarda occulto, e soprattutto il fatto di averla e
spesso anche che esista la possibilità di ottenerla. La loro reticenza a
diffondere, anche tra loro, le proprie scoperte è motivata da varie ragioni. I
più pragmatici, ma forse anche ipocriti, confessano solo che non gli conviene
che la situazione scappi di mano e siano in molti ad accedere a questi segreti,
posto che, altrimenti, temono che presto si troverebbero immersi in un’umanità
sconfinata che non potrebbe avere posto e sopravvivere con un minimo di agio
sul pianeta. Il che vanificherebbe lo scopo delle loro ricerche e creerebbe una
situazione infernale per tutti. Più conoscono una cosa più rischi ci sono che
essa si diffonda. Ma altra parte della verità è che agli alchimisti piace
sentirsi superiori agli altri.
Difatti,
sebbene per la stretta sopravvivenza un alchimista non abbia bisogno, ma anche
qui ci sono variabili legate al grado qualitativo della formula scoperta, di
null’altro per sopravvivere che degli ingredienti necessari a portare avanti il
proprio procedimento alchemico, (non hanno, per dirla chiaramente, nessuna
necessità di mangiare e bere o dormire, per esempio) continuano a svolgere
quotidianamente tali attività mondane per puro edonismo o estetica e non
vorrebbero mai rinunciarvi per salvare degli appartenenti alla razza umana.
In effetti
assolutamente tutti gli alchimisti sono sconfinatamente egoisti, e per ciascuno
di loro l’unica cosa che conta, è la loro formula segreta che, tutti, hanno
scopeto in solitudine perfetta e con fatiche tali da aver segnato per sempre il
funzionamento della loro psiche. Ciò abilita in loro solo un diffidente e
distante rispetto per chi sia arrivato allo stesso traguardo e per nessun
altro. Praticamente tutti gli alchimisti che approdino alla scoperta reagiscono
istantaneamente allo stesso modo: chiudendosi al resto degli esseri umani.
La loro
maniacale e esagerata diffidenza per il genere umano, la superbia, e un certo
disprezzo più o meno velato per tutti coloro che non abbiano raggiunto la
formula, e persino da parte di quelli che sono in possesso di migliori ricette
verso coloro che ne hanno di peggiori, delinea un comportamento e un modo di
ragionare e vedere il mondo, tipico dell’alchimista. Egli inoltre, in genere,
non ama più nessuno, non ha amici o relazioni stabili, e meno che mai tra gli
umani, sapendo che dovrebbe subire il distacco a proprie spese o dover optare
per infrangere il proposito di non diffondere e condividere con nessuno i
risultati della formula.
Tra
l’opzione di lasciar morire un amico, un fratello o l’amata della prima vita
mortale e quella di salvarli condividendo gli effetti del risultato (sempre
beninteso senza mai svelare la formula), pare che mai, nessuno abbia scelto la
seconda opzione, ma ci sono storie discordanti e leggendarie. In ogni caso se
ciò si verificasse e l’alchimista decidesse di salvare qualcuno, l’amico o
l’amata, sarebbero in eterno assolutamente dipendenti delle abilità del loro
alchimista di riferimento, cosa che, si immagina, nel volgere di qualche secolo
porterebbe, e sempre e solo qualora la relazione non si deteriorasse in modo
irrimediabile e loro non venissero abbandonati al loro destino mortale, il non
alchimista a essere più un servo di lui che altro.
Svelare la
formula è invece vietato e comporta la morte sia del beneficato che
dell’alchimista.
La
propensione, non solo ad isolarsi ed essere oltremodo schivi col resto del
genere umano, ma anche a sfruttarlo o usarlo unicamente con fini utilitaristici
(produrre beni di consumo, servirli, copulare), è maggiore in chi ha scoperto
una formula in epoche più risalenti. Difatti seppure tutti gli alchimisti
“valgono uguale”, posto che hanno solo l’arco di una vita per trovare la
formula e quindi tutti hanno raggiunto un risultato analogo in modi e tempi
analoghi, è certo che coloro che continuano a vivere oggi da epoche più antiche
sfruttano la loro scoperta da più tempo e si sono “disumanizzati” da più tempo
e più profondamente.
Sarebbe però
un errore pensare che il processo sia progressivo ed inarrestabile: arrivati ad
un certo punto tutti si stabilizzano e si può pensare che, verosimilmente, non
ci sarebbero differenze tra un ipotetico alchimista dell’antico Egitto, uno
romano, e probabilmente già oggi, uno napoleonico.
È per questo
che pur non essendoci una “società di alchimisti” vera e propria, salvo quanto
specificato oltre, tra loro non vigono criteri di superiorità o prestigio
basati su “anzianità storiche”, ma solo una sorta di rango creato in base
all’accuratezza e l’effetto della formula.
Tra l’altro,
riguardo all’anzianità, c’è da dire che un alchimista è e rimane un essere
umano, e con ciò le sue capacità mnemoniche, pensiero, capacità fisiche, seppur
tenute sempre al suo massimo livello e rinnovate costantemente dall’uso della
ricetta, rimangono limitate, sicché essi perdono, col passo del tempo, in modo
pressoché completo, la memoria di epoche molto distanti e ovviamente persino di
identità che, in esse, loro stessi abbiano adottato, nonché di persone
conosciute, avvenimenti occorsi e tutto il resto. La consapevolezza di questo
processo di oblio rende, soprattutto i più antichi, oltremodo compassati e poco
propensi all’entusiasmo e all’emotività.
Sebbene gli
alchimisti non solo non si frequentino assiduamente e non sono legati, in
genere, da vincoli di amicizia o solidarietà speciali, ma non abbiano neppure
chiaro essi stessi il loro numero esatto, col tempo s’è creato una specie di
“Circolo” al quale molti di loro hanno aderito.
Esso si
riunisce solo in determinati casi o ciclicamente ogni molti anni, e l’unico
scopo di esso è quello di controllarsi gli uni agli altri in modo da assicurarsi
che nessun alchimista conosciuto, appartenente al circolo o meno, faccia dono
mai della propria formula a nessuno. La pena per chi svela o riceve la ricetta
è la morte, ed essa è comminata da una giuria del circolo e dal suo presidente.
Fino ad ora sia il Circolo, sia, quando non era ancora stato istituito, altri
alchimisti sciolti, hanno sempre scongiurato ogni rischio e represso
infrazioni.
Il fatto di
entrare in possesso della formula per altra via che non siano le ricerche
personali, vale a dire sia per dono che per furto per esempio, comporta la
soppressione fisica immediata del non alchimista sia quale sia la sua storia,
ricchezza, fama, prestigio, sesso, o circostanza, e un processo per
l’alchimista, qualora sia il circolo ad intervenire, o l’uccisione sommaria di
lui da parte di un collega che sia a conoscenza dei fatti, se gli riesce.
Anche chi si
fa rubare la formula risponde di una grave colpa secondo le regole del Circolo,
e ciò stimola anche la segretezza e prudenza. Non è però considerato illecito
evitare la propria soppressione fisica svelando la formula, posto che la vita è
il bene sommo e non è pensabile che essa venga sacrificata, ma si giudicherà
invece la ragione che ha permesso a qualcuno di ricattare l’alchimista,
minacciarlo e estorcergli il segreto.
Va da se che
qualora un mortale entri in possesso della formula per una via che non sia la
propria ricerca personale deve essere soppresso, cosa della quale si incarica
sempre il Circolo. Va soppresso anche chi ruba solo il prodotto finito e non
saprebbe rifarlo, anche qualora esso gli conferisse solo un prolungamento della
vita, dato che, come detto, non è ancora mai stata trovata una formula che
salvi dalla morte in una unica assunzione.
Tra gli
alchimisti gira la voce e il sospetto che alcuni di essi potrebbero non essere
i diretti scopritori della formula, ma persone che hanno soppresso il legittimo
proprietario e ne hanno appreso ed usurpato i segreti. Quindi tutti si guardano
con diffidenza, ma specialmente sono visti con sfiducia coloro che
appartenevano a famiglie ricche e nobili, dato che avrebbero potuto pagare le
ricerche e poi appropriarsi dei risultati senza dare scampo al vero alchimista.
Questa diceria circonda soprattutto uno di essi, un nobile napoletano del diciottesimo
secolo.
La ragione
della loro maniacale contrarietà ad allargare il molto esiguo gruppo di eletti,
neppure dando piste o suggerimenti a coloro che stanno studiando sulla loro
formula, e neppure con persone di fiducia o amate, è motivata anche dal fatto
che, secondo una comune opinione, chi entrasse a conoscenza delle stessa senza
il necessario percorso e la relativa serie inaudita di sforzi, sacrifici e
sofferenze, non darebbe il giusto peso ad essa e in breve la voce correrebbe e
gli immortali diventerebbero presto un numero così spropositato da rendere il
pianeta invivibile. Ciò forse non avverrebbe mai, ma loro hanno la fobia di
questo scenario, dato che vivere sarebbe una sofferenza, l’accaparramento di
alcuni degli ingredienti necessari impossibile, e paradossalmente sarebbero
costretti a rinunciare all’unica cosa a cui tengono: la vita.
Non tutti
gli alchimisti aderiscono al Circolo. Alcuni, anche di quelli di maggior rango,
almeno due dei più importanti e altri quattro più anziani, ma validissimi, ne
restano fuori e diffidano di questo sodalizio e dei suoi presupposti specie
dopo il cambiamento del 1500. Lo fanno per ragioni anche opposte: alcuni sono
meno ostili verso l’umanità e i loro ex fratelli, altri ancora più schivi della
media, credono di non aver bisogno di nessuno e di potersela cavare da soli, o
sono troppo misantropi o superbi per sopportare vincoli.
Comunque gli
immortali del Circolo hanno da tempo istituito l’usanza di contrassegnare ogni
alchimista, dentro o fuori del sodalizio, con una carta dei tarocchi. Essa
viene estratta dall’interessato da un antico mazzo e qualora il soggetto si
rifiuti di prendere parte al rito, la si estrae per lui lo stesso e viene
chiamato col nome della carta anche contro la sua volontà.
La carta
dell’alchimista che muore viene rimessa nel mazzo e può essere estratta di
nuovo, in tal caso il nuovo possessore prende il suffisso di secondo, terzo e
così via. Le carte oggi assegnate sono 27 delle 78. Una leggenda senza
fondamento alcuno dice che quando il numero di immortali sarà quello di tutte
le carte del mazzo, il mondo finirà e gli alchimisti con lui, a meno che non
abbiano trovato altre formule per vivere fuori dal mondo.
Tra gli
alchimisti non ci sono donne.
La
provenienza geografica degli alchimisti è varia, dei 27: (ci si riferisce al
nome attuale del posto di origine anche se non sempre è certo, o l’aria
geografica è oltremodo vasta. Ci sono spesso indicazioni vaghe su tutto) 6 sono
italiani (uno viene però dal Nuovo Mondo), 5 mediorientali, 2 africani, 2
ebrei, 2 spagnoli, 1 tedesco, 1 islandese, 1 scandinavo, 1 inglese, 1 scozzese,
1 irlandese, 1 russo 1 cinese, 1 indiano, 1 ceco. Di essi 21 appartengono al
circolo e 6 no. Dei sei 2 sono giovani e 4 no. Dei 2 giovani uno è italiano e sono
io. Dei 5 più maturi un altro è italiano, ha l’aspetto di un quarantenne ed è
un nobile napoletano.
Il più
antico è l’africano, ma non è tra i più giovani, il secondo il cinese, il terzo
un arabo (di parecchio meno antico degli altri due e non appartiene al
Circolo), il quarto, della stessa epoca del terzo, è un ebreo. Spesso non si
sanno le epoche precise, specie dei più antichi, che sono persone oltremodo
schive e infide. Loro quattro non possono vantare, da questo punto di vista,
benemerenze particolari tranne per il fatto di aver scoperto la loro ricetta
molto tempo fa e con tecniche e strumenti assai rudimentali e di avere un’idea
più approfondita della storia degli alchimisti. Infatti essendo sulla terra da
molto tempo hanno una visione più dettagliata della storia degli immortali e su
di essa: quanti e quali sono morti e perché, quanti processi si sono tenuti e
dove, quanti dispersi, quanti omicidi, conoscono decine o centinaia di storie
ed episodi del genere tra i più antichi. Tuttavia le storie non sono
verificabili, e molte affondano nella leggenda. Hanno appunti (come ogni
alchimista), altrimenti non ricorderebbero molto delle epoche remote. Li
tengono nascosti e ne parlano di rado e solo su richiesta motivata, per
rendersi preziosi e necessari.
Il più
recente è il tedesco, diventato immortale durante al seconda guerra mondiale,
ha una formula di eccellente potenza.
Il leader
del Circolo è un italiano con aspetto da ragazzo, considerato “recente”, è del
1500, prima di questa epoca si è considerati “antichi”. Nel 1500 ci furono
importanti cambiamenti nella società alchemica.
Solo in un
caso due della stessa famiglia e epoca sono riusciti entrambi ad arrivare a un
risultato comune, erano due fratelli italiani del tredicesimo secolo, uno dei
due è morto.
Le 27 carte
estratte sono (per ordine di potenza della formula):
1. Il
fante di coppe: (il leader, italiano, ragazzo, formula recente 1500 c.)
2. Il cavallo di bastoni: (tedesco, ragazzo, formula recente 1940 c.)
3. Il
quattro di danari: (inglese, giovane, formula recente inizio 1900)
4. Il
sei di spade: (cinese, maturo, antico)
5. Il
cavallo di coppe: (russo, mezza età, antico)
6. Il
re di danari II: (ceco, mezza età avanzata, formula recente)
7. Il
matto: (mediorientale – Turco, anziano, antico)
8. Il
cinque di bastoni: (mediorientale- Arabia, mezza età avanzata, antico)
9. Il
dieci di coppe: (mediorientale- Marocco, anziano non troppo, antico)
10. L’otto
di bastoni: (mediorientale- Caucaso, anziano, recente)
11. Il
due di danari: (italiano, anziano, antico)
12. Il
due di spade: (italiano, anziano, antico)
13. L’imperatrice:
(scandinavo, anziano, recente)
14. Il
fante di danari: (ebreo, anziano, antico)
15. Il
due di bastoni: (africano, anziano, formula antica)
Da qui in
poi gli alchimisti sono davvero molto anziani o decrepiti:
16. La
torre (indiano)
17. L’appeso
(africano)
18. Le
stelle (italiano)
19. Il
bagatto (scozzese)
20. Il
tre di spade (ebreo)
21. Il
sei di spade (spagnolo)
Fuori dal
Circolo, e senza aver accettato il nome rimangono:
22. La
temperanza: (italiano, giovane, formula antica)
23.
L’asso di bastoni (irlandese, giovane, recente 1700 c.)
24.
L’asso di cuori (italiano, mezza età, formula recente)
25. Il
cinque di danari (arabo, non troppo vecchio, antico)
26. Il
nove di bastoni (islandese, anziano, antico)
27. Il
cavallo di coppe (spagnolo, non troppo vecchio, formula non recente 1400 c.)
A quanto
pare sono morti, o stati uccisi, circa dieci alchimisti immortali nel corso
della storia umana. Di almeno cinque soppressioni possiamo essere sicuri, anche
se alcune circostanze potrebbero essere leggendarie. I processi conosciuti sono
diversi, quelli con condanne a morte solo 3. I dispersi dati per morti sono 5
circa. Le persone entrate in possesso della formula senza diritto e
successivamente soppresse sono una decina, attualmente non ci sono carichi
pendenti. Gli umani uccisi dagli alchimisti per tutelarsi o proteggersi sono
innumerevoli.
Un solo
alchimista si è suicidato nella storia del mondo.
giovedì 26 luglio 2012
SPEDIZIONE AL CASTELLO (Racconto basato su nuove fonti su Vlad Țepeș)
Premessa.
È necessario formulare delle puntualizzazioni in merito al racconto
che segue, ispirato a fatti realmente accaduti. Un recente esame di carte non
ancora diffusamente studiate, proveniente da un archivio di fonti dirette, solo
recentemente rinvenuto, sulla figura storica del celeberrimo Vlad III di
Valacchia, il famoso Vlad Țepeș, personaggio
da cui notoriamente è stato tratto quello letterario di Dracula, ha fatto
emergere, tra molto altro materiale, una lettera estremamente interessante.
Essa, priva di data, ma probabilmente risalente al 1459, è al vaglio degli
studiosi e sono in corso ricerche piuttosto complesse.
Ho avuto il privilegio di poter apprende i primi ed
immediati risultati degli accertamenti, ed entrare in possesso di una
traduzione della stessa, per intercessione di un amico a conoscenza del mio
interesse per temi così orridi. Egli è un ricercatore universitario nel gruppo
di studi diretto scopritore del reperto storico, partecipa in una
collaborazione tra due università inglesi e quella di Bratislava e mi ha
chiesto di non comparire direttamente.
È sorto tra noi un intenso carteggio sul rinvenimento e sul
contenuto della lettera e, se fossi chiamato a dire la mia su quanto egli mi
dato a conoscere, direi che, oltre alla storia in se, qui di seguito narrata,
essa è davvero raccapricciante, incuriosisce e sorprende come dai dati in esame
traspaia una inedita versione del personaggio finora conosciuto di Vlad.
Il famigerato guerriero e despota, smisuratamente crudele,
dato questo arcinoto e leggendario, parrebbe essere stato anche incline ad
affrontare temi di ordine generale in modo pressoché speculativo filosofico e
con certo grado di astrazione, interessato alla ricerca di principi e
motivazioni sistematiche sul comportamento umano, oltre che invaso da
inquietudini esistenziali. Tutto ciò per quanto, ben’inteso, portasse avanti
tali temi in modo del tutto eccentrico e assolutamente deviato.
L'oggetto di studio da parte del gruppo di ricerca è la
lettera stessa, appunto, mai inviata dal suo redattore, e che, da una prima
ricostruzione, probabilmente fu intercettata e rimase al maniero dove Vlad
viveva in quel tempo e da dove dirigeva le sue campagne di contenimento
dell'Impero Ottomano.
Essa fu redatta da un emissario di un piccolo regno
limitrofo ed era destinata a sua moglie. Si ignora, e si stanno facendo
ricerche meticolose in proposito, se il carteggio fosse stato più esteso, ma
per ora ciò pare potersi escludere.
Fu scritta con grafia a tratti malferma, molto rapida e
minuscola, nella notte anteriore alla partenza da quel luogo che egli stesso
definisce: “maledetto ed abitato da
orrori ineguagliabili”.
La missiva è, tutto sommato, in buono stato, leggibile nella
sua gran parte, e, la prosa, piuttosto scorrevole ed elegante, fa pensare ad un
estensore di grande preparazione ed intelligenza, educato, colto, di doti
eccellenti, specie se si considerano la giovane età e le orrende circostanze in
cui si trovava nel frangente in cui essa fu redatta.
A tali circostanze, ed al terrore che ne derivò, devono
probabilmente attribuirsi le occasionali brusche interruzioni di tema, i salti
o le reiterazioni non necessarie di alcuni concetti, che verranno omessi nella
storia proposta a continuazione.
Lo scritto è praticamente privo di correzioni e cancellature,
probabilmente fu vergato di getto nell'arco di poche ore, su di un unico foglio
quadrato, trovato aperto, di dimensioni piuttosto grandi poi piegato e chiuso
con spago e cera lacca. Si sta studiando per far emergere tutti i dati che
contiene e, ove sia possibile, i riferimenti e rintracciarne i fili. Nel
frattempo mi sono permesso di formulare una proposta personale tutta da
verificare.
Eviterò di riportare tecnicismi e alcuni passaggi,
verosimilmente i più importanti ed interessanti dal punto di vista
storico-aneddotico, relativi a identità e provenienza dei personaggi implicati
nella vicenda, anche perché non sono del tutto chiari i dati anagrafici di
ciascuno. E neppure del tutto chiarita dovrebbe essere l'intera e penosa
vicenda vissuta dal gentiluomo, sul quale e sulla cui storia personale, il mio
amico, con altri, ha iniziato una ricerca specifica che s’è già rivelata tanto
fruttifera quanto bizzarra e tristemente interessante. La parte finale del
racconto andrà quindi verificata.
Qui di seguito propongo perciò una ricostruzione il più
attinente possibile ai dati fattuali in possesso sino al momento, di avvenimenti
probabilmente occorsi al malcapitato redattore della missiva oggetto di studi,
ma completati da aggiunte provenienti solo dalla mia fantasia. Ribadisco
pertanto che, nonostante l’interesse del mio amico per la ricostruzione della
storia come da me praticata, quanto segue non ha alcun valore storiografico e
non ha nessun vincolo con l’ambiente accademico e i relativi studi che si
stanno portando avanti.
Le numerose frasi poste in virgolettato e corsivo sono comunque
attinte in modo diretto dalla scrittura in esame
Una possibile
ricostruzione degli avvenimenti.
Durante alcuni periodi particolarmente caldi dal punto di
vista bellico, vari Regni, Stati o Feudi confinanti con quello retto da Vlad,
sia importanti e piuttosto estesi, così come più piccoli e di minor momento, erano
usi mandare dei loro ambasciatori ed emissari a conferire con lui per
informarsi sulla politica e le intenzioni militari di costui. Ciò col fine di
stipulare accordi o alleanze, formulare richieste o offrire appoggi, e curare tutto
ciò che concerne diplomazia e relazioni vicinali in una zona calda e dal futuro
incerto.
L'estrema crudeltà e mancanza di umanità del personaggio erano risapute, quand'anche, da quanto più volte emerso da numerosi testi, molti
dei diplomatici inviati, così come, si spera per la salvezza delle loro anime,
di coloro che lì li inviarono, ne misconoscevano le esatte proporzioni, i
contorni e l'estensione.
Orbene, in una delle spedizioni diplomatiche che vennero
realizzate a quel tempo si trovarono a coincidere (non si sa se
intenzionalmente, né, invero, quali e quante di preciso) nel castello varie
delegazioni contemporaneamente. Il famoso condottiero cristiano fece sapere agli
ambasciatori che li avrebbe ospitati per tre giorni e due notti, avendo così il
tempo di illustrare ad essi cosa tornare a riferire ai loro rispettivi luoghi
di origine su come intendesse portare avanti la sua lotta ai turchi e di cosa
avesse bisogno allo scopo.
L'autore della nostra lettera, un rampollo di buona famiglia
ben educato e indirizzato alla carriera militare, pur avendo ascoltato molte
storie sul personaggio che avrebbe visitato, il testo lo dice chiaro e tondo, aveva,
si deduce, accettato il prestigioso incarico di ambasciatore ignorando
completamente sia lo stato mentale e la personalità esatta del condottiero, sia
il panorama in cui si sarebbe trovato una volta giunto là.
Si riesce ad immaginare con certo grado di approssimazione
anche che un incarico del genere, evitato da tutti, fosse stato affidatogli
proprio in virtù della sua giovane età, nonché del poco potere che aveva al
momento la sua famiglia, e che lui lo accettò, probabilmente alquanto
raggirato, solo in considerazione delle benemerenze e del lustro che esso
incarico gli avrebbe procurato sulla sua carriera futura.
Il giovane narra dello stupore con cui dovette apprendere
che, all'approssimarsi alla destinazione, le persone che lo servivano, del
posto o forestiere che fossero, lo abbandonarono in un villaggio ed egli, come
pare fosse ormai prassi, fu mandato a prendere da un servitore del castello
dove giunse completamente solo.
Avvicinandosi racconta dell’accorato malessere e dello sgomento
con i quali notò che l'aria si faceva via via sempre più spessa e irrespirabile
e che, inorridito, approssimandosi ancora alla destinazione, dovette
contemplare, tra le brume e le foschie del luogo, “centinaia e centinaia di pali che trafiggevano esseri umani e
sporadicamente anche bestie”.
È nota l'abitudine ossessiva di Vlad per l'impalamento, fatto
che probabilmente il nostro non ignorava del tutto, ciononostante egli narra,
delle specifiche circostanze in cui era venuto a trovarsi, come di qualcosa che
“per estensione e quantità era del tutto
inaspettato e superava di gran lunga ogni immaginazione sui peggiori orrori che
la mia mente avrebbe mai potuto concepire”.
Una volta nel castello, sia il tanfo di escrementi e
cadavere, sia i penosi lamenti di persone ancora in agonia, “facevano tremare le gambe e disegnavano una
smorfia di nausea e malessere su tutti i presenti che non fossero del posto”.
I vari ambasciatori furono ricevuti insieme ed accolti con
sobria cerimoniosità dal padrone di casa. Il tratto e i fraseggi, intercorsi
tra i diplomatici e la nobiltà del posto, erano involti in una serie di cortesi
modali che assumevano i contorni dell'assurdo e del grottesco, nella
circostanza specifica, posto che assolutamente nessuno dei presenti si sentiva
a proprio agio e che tutti erano enormemente turbati per lo scenario che si era
palesato e “il cui orrore pareva
amplificato proprio dal procedere del cerimoniale di accoglienza stesso”.
Essendo stati però avvisati della “estrema permalosità” del personaggio che andavano a visitare, ed
essendo portati, dallo spettacolo macabro in cui erano immersi, a temere, forse
anche per istinto, ritorsioni, di certo “intimiditi
dalla distesa di cadaveri e morituri”, e infine impressionati anche dalla “solerzia angosciata e terrorizzata dei
servitori” nella realizzazione di ogni loro attività, nessuno osò dire una
parola, né accennare al minimo segno di disgusto o disagio.
Il Signore del posto invitò tutti a cenare con lui quella
stessa sera, e ciascuno acconsentì “con
mostre di falsissima gratitudine”. Solo uno di loro, che si giustificò
adducendo la stanchezza del viaggio a causa della grande distanza del suo luogo
di provenienza, la salute alquanto malferma, ed una serie di ragioni più o meno
fragili, ma imbellettate da una elegante oratoria e una cortesia a dir poco
impeccabile, declinò l’invito e gli fu concesso di ritirarsi. Il nobile, con
fare pragmatico e militaresco, non insistette oltre e tutti gli altri “parvero invidiare quello scaltro collega che
aveva avuto la presenza di spirito di manifestare ed ottenere quello che ognuno
di loro pure avrebbe voluto per se”.
A cena il tiranno ringraziò gli ospiti della loro presenza e
della compagnia che gli regalavano, “gradita
almeno quanto infrequente in tale numero”. Probabilmente erano presenti cinque
persone, se si comprende l’assente “giustificato”. Con una retorica fine, ma
priva di bellurie, affermò infatti di essere “uomo solitario, ed eccellente nelle sole doti militari”. Purtroppo,
ammise, a volte inadatto ad una troppo sviluppata vita sociale, circostanza di
cui era il primo a dolersi. Così parlando, per il tono, l'affabilità,
l'eleganza marziale, a tutti parve “un
guerriero stupendamente educato, fermo e leale, dalla mente del tutto coerente
ed ordinata”.
Egli proseguì illustrando temi che accomunavano le sorti ed
erano di interesse per tutti i presenti, riguardo alla situazione militare, lo
stato politico e bellico delle terre di confine ed una serie di questioni
geopolitiche a strategiche complesse e magnificamente sviscerate in una sintesi
asciutta e perfetta. Nell'illustrare il tutto con tanta competenza e
precisione, “parve persona di doti e
arguzia infinite, consapevole di ogni implicazione ed anche vagamente stanco
del suo duro ruolo costantemente legato al conflitto in lande di confine”.
Disse di aver dimenticato che potesse esserci una vita priva di battaglie,
sangue e morte, ma che quello era il ruolo che la Provvidenza gli aveva
assegnato in vita, e che lo avrebbe svolto al meglio e fino alle estreme
conseguenze, in esecuzione dei piani divini.
Mentre parlava in modo tanto impeccabile, di tanto in tanto,
tuttavia, si levavano e raggiungevano la sala alti lamenti e grida
raccapriccianti, che ricordavano a tutti da quali atrocità erano circondati. Il
nobile militare, a volte parendo consapevole, ma non turbato, dalla situazione
di disagio di chi non era abituato alla permanenza al castello, proseguì manifestando
la necessità di esercitare in modo tanto plateale e crudo la fermezza, essendo
egli l'unico vero baluardo contro nemici fanatici, che lo superavano in numero
di molte volte e disposti anche loro a tutto. La fornitura di un senso
strategico militare, vale a dire ”razionale”,
pur nella sua estrema crudezza, di quanto aveva fatto inorridire ciascuno degli
stranieri all'approssimarsi al castello, parve far tirare un sospiro di
sollievo agli stessi, o per lo meno, il nostro racconta di essersi sentito “lì per lì sollevato”.
Prima di iniziare a desinare, dopo un acuto urlo straziante
e spaventoso proveniente dall'esterno, che gelò il sangue di tutti, il padrone
di casa concluse dicendosi dispiaciuto dell'assenza di uno di loro, “che attende in altro loco”, e manifestò
il suo disappunto affermando, velatamente contrariato, di non gradire le
perdite di tempo e l’essere costretto a ripetere più volte le stesse tediose
storie. Durante la cena i servitori erano di una silenziosità e celerità
impressionanti e sembrava che, quando il padrone ne guardava qualcuno, ciascuno
di loro facesse di tutto per uscire di scena e dalla sua vista il prima
possibile, ma non ci furono incidenti di sorta.
La serata andò avanti senza intoppi e, per il giorno
seguente, Vlad dispose un giro mattiniero per le terre circostanti il castello al
fine di discutere di politica e di diplomazia, “senza prendere alla leggera tali temi e senza distaccarsi troppo dalla
crudele realtà quotidiana in cui, immerso, era costantemente costretto a
prendere dolorose decisioni”.
Poco dopo l’alba la colazione fu servita all'aperto nel
cortile del maniero, prima di uscire per quella “ricognizione che nessuno avrebbe voluto realizzare”. Mancava di
nuovo l'ambasciatore del giorno anteriore, ma, per paura di essere inopportuni,
ed anche per “essere indotti
dall'atmosfera in cui erano immersi, a pensieri lugubri”, nessuno chiese di
lui, né l’ospite accennò all'argomento.
Quella mattina però tra la servitù serpeggiava certo
percepibile terrore. Un domestico, probabilmente di origine turca e preso in
prigionia, era tanto terrorizzato che, vuoi anche per il clima freddo, non
riusciva ad evitare di tremare e si notava che, mentre teneva il vassoio
d'argento in mano, doveva fare uno sforzo immane per non rovesciare qualcuno
dei contenitori che vi poggiavano. “Tale
e tanto era il tremore che il metallo ed i cristalli posti vicini tintinnavano
senza posa”.
Durante una lunga pausa di silenzio assoluto quei rumori
divennero evidentissimi. Il padrone si rivolse al domestico in prima persona,
direttamente, chiedendo se qualcosa di specifico lo turbasse e quello per lo
spavento, nell'ansia di dover concepire una risposta, iniziò un'incomprensibile
e angoscioso balbettio. Il padrone incalzandolo a rispondere aumentava il suo
terrore e la conseguente incapacità a destreggiarsi. La scena era orribile, il
poveraccio fece una pena infinita a tutti, non gli fu possibile articolare una sola
frase di senso compiuto, ma nello sforzo rovesciò un paio di bicchieri. Al che
il despota si imbestialì e ordinò che lo portassero via, coprendolo di
improperi. Poi chiese agli ospiti di scusare il malcapitato per la sua goffaggine,
aggiungendo che da quell'incidente sarebbe nata però l'occasione di spiegar
loro, con maggiore chiarezza, il suo ruolo e il senso della sua presenza nel
mondo.
Sicché si avventurarono al di fuori delle mura, dove
iniziava una distesa apparentemente sterminata di impalati. All’aprirsi dei
cancelli, “tutti erano già piuttosto
turbati dal temperamento dell'ospite, dalla brusca virata del suo contegno, e
dalle ipotetiche conseguenze delle sue parole, ma senza dubbio l'attenzione
andò tutta ai malcapitati vittime delle terribili esecuzioni per impalamento”.
Alcuni dei pali trafiggevano carogne ormai decomposte,
ridotte quasi a scheletri, preda di agenti atmosferici e uccelli, altri
cadaveri erano più recenti, a volte nudi, gonfi, scuri, ed alcuni pali dovevano
attraversare persone ancora in vita, posto che si udivano “benché flebili, piuttosto di rado e senza poterne stabilire la sicura
provenienza”, gemiti, lamenti di ogni sorta. In ogni caso i corpi erano in
tal quantità che occasionalmente il sangue “gocciava
sulle delegazioni, forse trasportato dal vento o dai becchi dei corvi, come
piovesse dal cielo”. C’erano pali molto alti, ma in altri i corpi erano quasi
ad altezza d'uomo, con la testa dei trafitti poco più su di quella dei
passanti. Nella maggior parte dei casi il palo usciva da una scapola, e il capo
pendeva insanguinato da un lato, ma ad uno sguardo attento si vedevano “decine e decine di variazioni della tecnica
di impalamento, che non dovevano essere casuali, e che di certo avevano
conseguenze raccapriccianti sulla dolorosità del trattamento e la durata
dell’agonia”.
Gli ambasciatori, tranne il giovane “curioso seppur terrorizzato”, cercavano di evitare di guardare i
dettagli. Avevano assunto una strana smorfia degli occhi e del viso nel
tentativo di ridurre la loro percezione e in preda al raccapriccio, mentre il condottiero
pareva tranquillo e a suo agio in quell’ambiente. Tutti, comunque, preferivano
porre lo sguardo su di lui, “con un maldestro
e vile sorriso che pareva un ghigno ipocrita”, piuttosto che sul panorama
circostante ed egli camminava soldatescamente, scortato da un piccolo manipolo
di quattro enormi guardie armate in modo appariscente e ricco. Procedeva come
se cercasse un punto determinato della radura.
Raggiunsero un piccolo gruppo di persone, e “diradatasi la foschia, riconobbero tra altri
soldati di stazza particolarmente robusta anche loro e volti spietati e
inespressivi, il malcapitato servitore balbuziente”. “A tutti fu immediatamente chiaro che avrebbero assistito a una
esecuzione, spettacolo che ognuno avrebbe voluto evitare di contemplare e che
riempì tutti di accorata angoscia”. D’altra parte, tranne il giovane, gli
altri tre emissari presenti erano dei diplomatici professionisti, “di età più o meno avanzata, dediti ad opere
di concetto e non d’arme”.
Vlad asserì che per capire il mondo nulla supera
l’esperienza diretta, e che veder morire una persona per impalamento era dunque
l’esperienza che ciascuno che voglia parlare di guerra e di questioni militari
deve vivere direttamente, a meno che non voglia cianciare a sproposito e dar
fiato al vento. Fino a lì nessuno mosse un dito, protestò o disse neppure una
parola su quanto stava per succedere. Tutti erano semplicemente agghiacciati e
spiacevolmente sorpresi dalla piega delle circostanze e parevano ammutoliti e
incapaci di decidere che atteggiamento assumere.
Quando fu dato il comando di procedere, il servitore, che
fino ad allora era inginocchiato e singhiozzava spaventato e rassegnato, ebbe
una sorta di repentino sussulto. Il suo carnefice, probabilmente il capo delle
esecuzioni, “con una smorfia beffardamente
crudele disse ai presenti, tra ghigni vari dei commilitoni, che sempre
succedeva lo stesso e che gli esseri umani sono tutti eguali”. Il
poveraccio urlava ora in preda al panico, chiedendo di non venire ucciso, e si
dimenava, con un vigore e una disperazione tali, che già solo quello spettacolo
turbava oltre misura la platea. I soldati non avevano invero difficoltà alcuna a
tenerlo fermo, ma a volte “pareva che lo
facessero dimenare alquanto solo per dargli crudeli false speranze” e
giocare sulla sua morte.
Nel volger di un tempo che parve brevissimo agli spettatori,
i nerboruti gendarmi erano inesorabilmente riusciti a inserire saldamente il
palo nel corpo della vittima e ad ergerlo verticale nonostante gli immani
sforzi di questo per cercare una via di scampo. Il tronco era unto e scivolava
lentamente dentro la vittima che stringeva forte i pugni contratto in una
agghiacciante smorfia di dolore, “incordando
ogni muscolo fino allo spasmo come se così facendo potesse espellere il palo o
evitare che gli scivolasse dentro”. I soldati, invece, parevano attenti a indirizzarlo
in modo che seguisse un percorso determinato che non lesionasse organi vitali cosa
che avrebbe accorciato l’atroce agonia che lo aspettava.
Vlad pareva soddisfatto del lavoro dei suoi uomini. Tranne i
militari e il giovane, che, credendo fosse la miglior soluzione, dissimulava
l’orrore “attingendo con ogni forza la
sua imperturbabilità dal contegno proprio della lunga educazione militare
ricevuta”, gli altri parevano evidentemente invasi dall’orrore più intenso:
“chi si mordeva una mano nervosamente, chi
stringeva i pugni e rimaneva rigido su se stesso, chi contorceva le mani e si
toccava freneticamente il volto sudato ed imbarazzato senza riuscire ad avere
posa”. Le urla di terrore erano atroci. Il capannello di spettatori seguì
scosso e taciturno il despota che, con le guardie, si allontanò dal posto fino
a un punto dove le stesse fossero ancora udibili, ma non preponderanti.
Gli aveva dato quel che meritava, fu l’affermazione del
signore, “uno incapace di essere utile
perfino come domestico come potrebbe mai giustificare lo spreco di risorse che
si realizza per la sua sussistenza in questo mondo?” Poi facendo mostra di
dirigersi allegramente all’impalato, e insultatolo per essere un infedele, lo
scherniva dicendogli che il palo che gli sarebbe presto uscito dalla bocca
serviva a non fargliela usare ancora a sproposito, come stava facendo ora con
quelle urla da maiale, dopo che non era stato in grado di usarla quando gli era
stato richiesto. Questa affermazione fu detta con tale disprezzo per la vita
umana e con tale cinismo provocatorio, che gli altri ambasciatori, che già si
notavano molto turbati, parvero in procinto di ribattere qualcosa, ma nessuno
si mosse.
Il nostro giovane invece riusciva, anche se con estrema
fatica, a mantenere una apparente calma e di certo non avrebbe, anche per
rispetto dell’età degli altri, osato dire neppure una parola lui per primo.
Vlad aggiunse una descrizione della sorte del malcapitato,
dicendo che “quell’inutile porco infedele
sarebbe rimasto vivo probabilmente per un altro paio di giorni, avendo tra
dolori e sofferenze indicibili, forse anche tempo per pensare in che diverso
modo avrebbe dovuto condurre la sua lurida vita”. A nessuno che si ritrovi
di morire in tal maniera potrebbe mai venire in mente che la vita vissuta sino
ad allora sia valsa la pena. L’ultimo tassello di essa ne diviene, senza dubbio,
la parte più rilevante, l’unica davvero importante, cancella tutto il resto ed
ogni gioia e piacere, rende evidente che sarebbe stato meglio, per lui, non
essere mai nato. Nessuno pensa mai, mentre vive, che potrebbe finire in quel
modo, ma questa diviene la realtà per una infinità di persone, e quando questo
accade, e realizzano di non avere scampo, tutti reagiscono allo stesso modo.
Così come nessuno sa di preciso quanto scotti il fuoco, e una volta bruciatosi
urla.
A quel punto uno dei presenti, un blando e paffuto cicisbeo
di mezza età, parve avere lo stimolo di rimettere, ed il signore del posto lo fulminò
con uno sguardo pieno “più che di odio,
di disprezzo, o di entrambi in egual
misura”, mentre piegato poggiava una mano ad un palo molto alto e ansimava
in preda alla nausea e all’orrore.
Vlad iniziò ad illustrare quella che pensava fosse la missione
della sua vita. Iniziò con una frase strana, “io non sono che un piccolo dedalo di un immane labirinto voluto e
creato da Dio in persona. Un dedalo
nel quale il malcapitato che si immetta non troverà alcuna pietà. La missione a
me riservata è quella di spargere tutto il dolore e la sofferenza che io possa
verso il prossimo ed io a questa vocazione risponderò senza posa. Il luogo che
io rappresento dell’immane città divina è il peggiore, la mia missione vincere
e far trionfare il volere di Dio, e per questo ho necessità di persone che non
abbiano compassione come non la ho io. Su
qualcuno deve ricadere questo compito, per liberare da esso le coscienze degli
altri esseri umani, ed è su me che la mano di Dio conta. Attraverso di me
agisce sul mondo, compiendo quello che ha già stabilito e scritto nella notte
dei tempi e che io non posso modificare. Ho bisogno solo di persone come me,
per portare a compimento l’inesorabile volontà della sua mente onnisciente. Per
questo non sopporterò mai la viltà ovunque la veda, e per questo chi di tale
debolezza è macchiato non potrà mai essere a salvo da me né potrà mai servirmi
o aiutarmi in nessun modo ”.
Aggiunse che tutti potevano biasimare a piacimento la sua
guerra e la sua missione, ma che al contempo tutti se ne avvantaggiavano. Si
industriavano a blandirlo offrendogli appoggi ed aiuti che non gli erano utili,
mentre in cuor loro albergava la falsità e l’ipocrisia e lo disprezzavano
quando erano nelle loro case. Ma il dolore è come ogni altro strumento, e lui sapeva
solo usarlo con sapienza e disinvoltura.
Dopo il suo discorso macabro e delirante Vlad indicò ai suoi
uomini l’emissario che aveva avuto il mancamento prima che egli iniziasse a
parlare. Loro lo afferrarono mentre quello, incredulo sul fatto che avrebbe
seguito la stessa sorte di tutti coloro che lo circondavano, ricordava
all’ospite non solo i suoi doveri come tale, ma anche le norme che gli
proibivano, in quanto diplomatico e per di più di nobili ascendenti lui stesso,
di poter essere attaccato e a maggior ragione essendo un rappresentate di un
altro regno in pace col suo. Le parole gli uscivano freneticamente per la paura
che l’esecuzione si realizzasse davvero, ma forse in quel momento non credeva
che ciò sarebbe potuto succedere. Non aveva senso! I soldati lo tenevano
comunque fermo mentre Vlad lo ascoltava come se stesse riflettendo sulle sue
parole ed esse potessero avere un effetto di qualche tipo. Poi, senza
modificare di una virgola le disposizioni date, ordinò di procedere affermando
che tutte le regole ricordate dal condannato non vigevano lì dove era lui. In
quelle terre di confine, così martoriate da una guerra perenne, il concetto di
pace era stato smarrito tempo addietro, così come ogni limite e ogni diritto e
l’amicizia verso chi si giovava del suo lavoro, mentre comodamente rimaneva
inerte e beato lontano da lì.
Quando i soldati iniziarono a manovrare con funi e aste come
avevano fatto precedentemente “il
malcapitato iniziò a balbettare delle pietosissime suppliche e a piangere disperato
e in modo inverecondo, mentre con ogni forza strattonava e si dimenava senza
posa. Poi iniziò a urlare in preda al panico”. Lo stesso soldato di prima
reiterò che a un certo punto tutti si comportano allo stesso modo, mentre anche
Vlad pareva divertito e complice della battuta. Il condannato a morte urlava e
implorava di essere ucciso in altro modo, ma il tiranno non lo stava a sentire,
e anzi gli diceva caustico solo di smettere di essere così tedioso, mentre quello
era già erto sul palo che stava per trafiggerlo.
Uno dei due diplomatici rimasti oltre al ragazzo si fece
coraggio e, chiedendo di essere ascoltato, intercesse, parlando in modo egregio,
per il suo collega in ambasce, mentre il secondo anche, ma più timidamente,
implorava di risparmiargli la vita o almeno concedergli una fine più onorevole
e consona ai suoi titoli, se tanto lo aveva offeso il suo contegno. “Il discorso del primo era oltremodo ben
costruito, rispettoso, motivato, non poteva in nessun modo essere preso come
una offesa o una mancanza di rispetto”, ma solo come una buona applicazione
di concetti universali e carità cristiana. Mentre tutti ascoltavano quello che
costui aveva da dire l’esecuzione si era fermata. Alla fine della requisitoria
tempestiva e sintetica del diplomatico Vlad parlò solo per chiedere ai soldati
per quale ragione si fossero rallentati nelle operazioni. Che difatti furono
concluse nel volgere di pochi altri secondi. L’intervento dell’altro
ambasciatore non era servito che a dare false speranze e allungare l’agonia di
chi avrebbe voluto aiutare.
Subito dopo, come il tiranno sostenne lapidariamente, “per ribadire che i concetti illustrati dal
suo ospite non avevano lì dove si trovavano il minimo valore e che lui
procedeva secondo il suo capriccio, che era anche il capriccio e la volontà di
Dio”, ordinò che anche il secondo gentiluomo, quello che aveva parlato così
timidamente, e solo in appoggio pedissequo delle splendide idee del primo,
fosse impalato. Si ripeté per la terza volta nel volgere di pochissimo tempo, la
stessa orripilante scena e il giovane così come aveva fatto anteriormente, né
disse una parola, né mosse un muscolo, né diede segno di turbamento, ma scelse,
da qui in poi anche strategicamente, di “comportarsi
come il più veterano, e rotto a tutto, dei militari”.
Più avanti il ridotto gruppo di persone formato dai due
superstiti forestieri, il Signore del posto e le sue guardie, seguito dagli
altri forzuti militari muniti di vari pali e funi, trasportati “come si trattasse di oggetti di normale
amministrazione”, si fermò di nuovo. Il tiranno affermò di avere un ultimo
spettacolo da mostrare agli ospiti e mandò uno di loro del quale aspettarono il
ritorno per un po’, a prendere tre donne, una madre e due bambine.
Vlad chiarì che il palo dinanzi al quale stavano era “abitato da un filosofo”, probabilmente
un precettore, vista la giovane età, che come altri in passato aveva voluto dargli
la sua opinione “sul senso dell’esistenza
umana, sulla superiorità della virtù sul vizio, e della mitezza sulla crudeltà”.
Egli era stato per tutta risposta messo lì, proprio per dimostragli come se la
mitezza fosse utile, non ci sarebbe finito, o ci sarebbe finito qualcun altro,
o all’inversa il Grande Vlad sarebbe al posto suo, cosa che di sicuro quel
“mite” ora desiderava con tutto se stesso.
Il filosofo, ancora vivo, sicuro non avrebbe mai potuto
pensare, ormai che la sua posizione sarebbe potuta peggiorare, giacché stava
morendo in tal modo, ma aveva avuto sfortuna, aggiunse l’impalatore. Le sue
guardie avevano trovato la sua famiglia prima che egli spirasse e, visto che
era ancora cosciente, come una ultima lezione e per fargli avere tutti i dati
utili per sapere cosa pensare di esistenza, mitezza e virtù, avrebbe assistito
all’impalamento di sua moglie e delle figlie.
Ora sì che avrebbe saputo dire la sua su quali siano e come
funzionino le regole della natura, visto con quanta stupida competenza libresca
ne andava cianciando. Le vie del Signore sono infinite e certe une è una orrenda
disgrazia percorrerle.
I suoi sgherri senza battere ciglio impalarono tutta la povera
famigliola. Vlad intinse più volte le mani nel sangue delle tre ultime vittime
e lo assaporò. “Anche il sangue ha lo
stesso sapore, sia di infedeli che di cristiani, il sangue pure è tutto uguale”, disse.
Raccontare quello che il giovane sentì in quei momenti,
tutto l’odio feroce ed il disprezzo per quel mostro, e per i suoi aiutanti,
l’indicibile orrore e il solo desiderio di non dover guardare quella scena, non
potrebbe mai essere descritto. Egli stesso, tremante dice di non riuscire
neppure ad approssimarsi a riferirlo, e di voler solo dimenticare e fuggire da
quei pensieri e ricordi. Ma lì dinanzi alla scena, senza volerlo, pur riuscendo
ancora una volta a rimanere apparentemente placido e inerte, o forse pietrificato,
colto da una sorta di trance, al vedere le figlie piccole uccise in quel modo e
ascoltando le loro urla, emise un involontario gemito di pietà. L’altro
ambasciatore, invece, era sconvolto e terrorizzato, ma stavolta non accennò a
dire una sola parola, o a muovere un muscolo.
Quando ebbero finito, risvegliandosi come da un incubo, si
diressero tutti in silenzio, di nuovo verso l’entrata del maniero, entrando dall’altro
lato da dove erano usciti, dopo aver compiuto tutto un giro attorno alle mura.
Appena prima di varcare i cancelli Vlad si fermò nuovamente,
gettando di nuovo i due superstiti nel panico. Affermò che “il terrore ha un ruolo fondamentale nella
sopravvivenza e che è da esso principalmente che le persone riescono a trovare
lo stimolo ad andare avanti e a voler sopravvivere a tutti i costi”. “Tutti affermano di essere disposti a
sacrificare la loro vita per questo o quello, ma quando arriva il terrore no!”
Le più attaccate alla vita sono le persone terrorizzate. E ognuno è sempre e
solo terrorizzato per sé e mai per gli altri. Perché nessuno è davvero generoso,
tutti vogliono sempre e solo fare bella figura o salvarsi loro. Lui, sì, Vlad
era generoso, lui combatteva una guerra giusta e che beneficiava tutti, senza
ricavarne null’altro che la intima consapevolezza di essere la lunga e
implacabile mano di Dio. Lui era l’unico essere umano generoso che il mondo avesse
mai visto. Guardò fisso il diplomatico che aveva fatto il discorso a favore del
primo collega condannato. Perché aveva intercesso per il collega? Perché vedeva
se stesso in lui! E come mai si era fermato ora e non aveva più parlato, pur
dinanzi all’uccisione di una donna e delle sue due bambine? Perché voleva solo salvare
la sua pelle ormai! Per egoismo! Perché vista la fine del compagno non se la
sentiva di rischiare, cercando di intercedere un’altra volta, con coraggio, in
favore della donna e delle ragazzine, anche se in cuor suo reputava orribile la
scelta di ucciderle. Ecco quanto valeva la sua pietà e i suoi condivisi valori
cristiani di carità! Vigevano solo fino a che non arrivava il terrore per se!
Dinanzi a questo terrore, che per lui ora era l’unico vero Dio, persino quello
cristiano spariva, si cancellava di colpo, non ne rimaneva traccia. Infedele!
Pagano! Neppure dinanzi all’esecuzione spietata di innocenti, parlava. E a
vederla sottilmente, pure per egoismo aveva parlato prima, lo aveva fatto solo per
guadagnarsi una benemerenza, cercando di far deviare le azioni della mano del
Signore, cambiare quello che era già scritto, e pensando di non rischiare nulla
di suo a tal fine. Questa arroganza, ma soprattutto questo egoismo erano
lamentevoli! No, non avrebbe parlato, se avesse saputo da subito, che la pena
per chi mente e cerca di raggirare con vane parole il tiranno è la morte, anzi,
quella morte! Vlad, adirato, guardava ambedue i diplomatici “di volta in volta orientando su loro occhi
smisuratamente crudeli e folli”, cercando forse un appiglio per decidere
sulle loro sorti: se ucciderli, chi dei due o entrambi, chi prima chi dopo, e
godendosi il loro terrore prima di dare l’ordine di impalarli. Poi distolse lo sguardo
dal giovane, “fissando per lunghi istanti
solo l'altro insistentemente, con un volto di abissale ferocia sul quale
brillava un ghigno spaventoso e beffardo che l’altro faceva finta di non vedere
e di cui fingeva pure di non capire il significato”. Poi fece un fischio e
disse ai suoi che era giunta l’ora di terminare il lavoro iniziato.
Lo sventurato aveva già emesso un gemito di terrore, crollando
sotto lo sguardo del suo ospite, invaso da paura e a causa della tensione, prima
di ascoltare l’ordine di dover essere impalato pure lui. Aveva preso a tremare
e piagnucolare. “Evidentemente Iddio pregando
di essere risparmiato”. Ma dopo che Vlad si rivolse alle sue guardie, in
uno scatto di folle lucidità, cercando una fuga e allontanandosi dal despota,
estrasse un pugnale e prima che i militari riuscissero a mettergli le mani addosso
cercò di ficcarselo nel cuore lanciandosi su di esso. Per la troppa esitazione,
non gli riuscì di realizzare le sue sagge intenzioni e uccidersi. I soldati eseguirono,
quindi, gli ordini del loro signore, dicendo al giovane che l’unica soluzione certa per lui sarebbe stata quella di tagliarsi la giugulare, nessuno
avrebbe mai potuto fermare l’emorragia.
Vlad apparve piuttosto divertito dallo svolgersi degli
avvenimenti e dai commenti dei suoi uomini, come se avessero una lunga serie di
esperienze del genere in comune e si rivolse al nostro giovane con una sorta di
strana, confidenziale e bonaria arringa, quasi a volergli illustrare un
segreto: “il coraggio, vedi, è virtù
tanto rara e tanto difficile da trovare che nepure quando si sa che è l'unica
cosa che potrebbe salvarti, lo torvi, né per riuscire a mentire e a fingere di
averlo, né puoi mentire e fartelo venire dal tuo stesso terrore”. I due
entrarono, così, nel castello mentre gli armati rimasero all’esterno con altri.
Da lì in poi Vlad affermò di aver altre cose da fare e che
se il giovane preferiva, invece di accompagnarlo, ritirasi, aveva tutto l’agio
di farlo. Ma l’altro, pur confuso su quale potesse essere la miglior opzione
per non dargli pretesti per essere impalato a sua volta, essendo convinto e
tormentato dal fatto che egli avesse notato il suo gemito dinanzi
all’esecuzione della famigliola, e sicuro che prima o poi gli avrebbe fatto
pagare le conseguenze della sua viltà, cercò di impressionare il condottiero
continuando con la recita della sua imperturbabilità accettando di seguirlo.
Durante il resto del giorno, a dispetto del terrore di poter
essere giustiziato da un momento all’altro, non accade nulla di degno di nota,
almeno confrontandolo con le atrocità vissute fino a quel momento: “la giornata più orripilante della sua
esistenza, ormai segnata da quella infausta esperienza”.
Alla fine del secondo giorno, dunque, di tutti gli
ambasciatori non rimase che il più giovane e ignaro. L’unico a rientrare al
castello, forse grazie a quel suo contegno impassibile, che lo aveva distinto
dagli altri, ma più probabilmente per il solo arbitrio del Signore del posto. Magari
il giorno dopo, la giornata di impalamenti la avrebbe aperta lui per mostrare a
altre delegazioni le regole del posto.
Forse la sua salvezza fino ad allora altro non era che un
gioco sadico, come lo erano state le interruzioni e i rallentamenti delle
esecuzioni. Di sicuro non poteva sperare di essere lasciato in vita a causa
della sua giovane età, già che due bambine molto più giovani di lui erano state
fatte impalare senza un battito di palpebra, dinanzi ai loro genitori. Sarebbe
perito pure lui, ma se c’era una via di salvezza, essa poteva essere unicamente
quella di continuare a mostrare la sua flemma e imperturbabilità da militare. Continuò
a fingere di non temere di essere ucciso, conversando con il padrone di casa in
tranquillità, entrambi agendo come se in quel giorno di delirio non fosse
successo nulla di orrendo, e se gli altri colleghi non avessero perso la vita,
e non ci fosse nulla di cui preoccuparsi.
Dopo la cena, il giovane si recò nella sua stanza senza che
si verificasse alcuna situazione spiacevole. Una volta lì, solo, entrò in preda
di una straordinaria agitazione e fu del tutto incapace di prendere sonno. Estrasse
un foglio ed iniziò a scrivere alla moglie pur di riuscire a calmarsi un po’. Nel
silenzio generale si distingueva solo il raspio della sua penna, e l’unica luce
dell’intera ala del maniero era forse quella del bicchiere d’olio sul suo tavolo.
Di tanto in tanto si arrestava, tendendo le orecchie al rumore di passi che si
avvicinavano alla sua porta, altre volte doveva alzarsi dal tavolo e camminare
un po’ per dissipare la tensione. In ogni caso era ancora convinto che non
sarebbe uscito vivo dal maniero e sarebbe morto quella notte stessa. Così aveva
aperto la finestra per avere una occasione di finire la sua esistenza senza subire
le atroci sofferenze riservate agli altri. Spesso, al sentire i sinistri rumori
esterni, si ergeva su uno sgabello, tendendosi tutto per ascoltare meglio, e si
approssimava alla stretta apertura per essere pronto a saltare fuori qualora
qualcuno fosse entrato bruscamente. Fu in quella notte di inferno che il nostro
redasse il racconto di ciò che gli stava capitando.
Al mattino seguente, ancora insonne, aveva già chiuso la
lettera e stava attendendo notizie sulla sua sorte, quando un inserviente bussò
alla porta dicendo che una vettura lo stava aspettando per accompagnarlo al
villaggio dove aveva lasciato la sua scorta. La gioia e una preziosa speranza
si impossessarono di lui. Probabilmente per la fretta di andarsene, o proprio per
quella gioia e quella speranza di riuscirvi, nell’impacchettare i suoi beni,
perse la lettera che aveva redatto durante le lunghe ore di ambasce notturne. Essa
dovette presumibilmente scivolargli da una tasca del soprabito mentre lo
indossava con grande foga.
Prima di andarsene il padrone di casa, assai mattiniero
volle congedarsi da lui, e chiedergli se egli aveva capito cosa doveva riferire,
a coloro che lo avevano mandato, in merito alle sue necessità e alla situazione
bellica che da anni stava affrontando. Di certo il giovane annuì. Aveva
perfettamente capito che Vlad non aveva bisogno di dire neppure una parola a
nessuno, e che qualunque offerta di aiuto o proposta commerciale era o inutile
o fuori luogo. Delle altre delegazioni non sarebbe tornato nessuno a casa, il messaggio
era altrettanto chiaro nel silenzio della morte e della scomparsa, ma lui aveva
il privilegio di poterlo riferire di persona.
Il giovane salì in carrozza reiterando al padrone di casa saluti
così ridicoli da poter sembrare delle beffe, ma l’avvicinarsi della possibilità
di andarsene da lì, lo rendeva euforico. Al congedarsi con tanta gratitudine,
sentiva di essere addirittura sincero. Il padrone di casa accettava le dimostrazioni
di rispetto sorridendo scaltramente, come se fosse del tutto consapevole dei
pensieri e del terrore, delle speranze e della radice appassionata della sue
frasi. La vita, la vita e il terrore lo facevano vibrare tutto!
Ma l'unico superstite era ancora nel castello, il luogo del
terrore. Nella mente del giovane albergava e si riaffacciava di continuo l’idea
che tutto quello non fosse che l’ennesima farsa, che di lì a poco sarebbe stato
fermato, o lasciato andare solo per essere riacciuffato e impalato più lontano,
magari dinanzi a chissà che genere di altri spettatori, che saranno impalati a
loro volta e così via. Beffe su beffe contro il mondo intero e contro di lui e
la sua artefatta impassibilità che aveva radici solo nel terrore e nell’egoismo
di cui con disprezzo aveva parlato Vlad il giorno prima.
Ormai sentiva di non resistere oltre alla tensione e di essere
a punto di perdere il controllo proprio come avevano fatto tutti gli altri, stava
per cedere al panico e all’orrore giusto un attimo prima della salvezza. Fece
un ultimo immane sforzo.
Così gli parve di vivere un sogno quando la carrozza superò a
spron battuto i cancelli e si diresse di corsa verso la campagna infestata di
cadaveri.
Ormai iniziando a credere davvero di essere vicino alla
salvezza, il giovane ebbe quel crollo emotivo che aveva paura lo avrebbe sorpreso
in presenza di Vlad. Ma ce l’aveva fatta, invece, chiuse tremante tutte le
tendine del veicolo, per non dover più assistere agli orrori che lo
circondavano e avrebbero continuato a tormentarlo per il resto dei suoi giorni.
Chiuse tutto per bene per non far vedere a nessuno, vivo o morto, come singhiozzava e lacrimava per la fatica e la tensione della recita, durata tanto a lungo.
Nel terrore, mise le mani tremanti in tasca, cercando
consolazione nell’amore di sua moglie e il sogno di riabbracciarla, per avere
in pugno qualcosa che si riferisse a lei. Cercò i racconti che aveva redatto
per lei e che non le avrebbe mai consegnato, semmai fosse riuscito a tornare. Non
le avrebbe detto nulla, per non trascinala in quel folle e raccapricciante vortice
di disumanità, ma non rinvenne lo scritto.
Di colpo una nuova e invincibile ondata di spavento si
impossessò di lui. Non era ancora abbastanza lontano da sentirsi al sicuro,
forse non lo sarebbe stato fino al rientro a casa. Iniziò a sudare, il tremolio
delle sue mani aumentò, il panico lo invase, chiuso dentro a quelle fragili
pareti di legno che gli ricordavano una cassa da morto. Ogni metro che
procedeva in direzione di casa sua sperava che non fosse l’ultimo, quando di
colpo la carrozza si fermò.
Egli iniziò a respirare forte e ansimare, senza il coraggio
di scostare la tendina per guardare fuori e sapere cosa stava succedendo. Estrasse
il pugnale. Silenzio assoluto! C’è Vlad lì fuori, lo sente, coi suoi sgherri,
con funi e pali, che attende che lui
faccia la prima mossa, che lo farà impalare e morire sulla radura in
innumerevoli ore di agonia, lontano da tutti, senza più rivedere la sua amata. Si
mise la lama sulla gola. Anzi, forse l’aveva fatta rapire e c’era lei là fuori,
la sua amata, nuda, impalata, morta, o agonizzante. Iniziò a piangere,
terrorizzato, per il panico, frenetico, non sapendo se scendere dalla carrozza
e correre cercando di fuggire, o aspettare, o scostare la tendina per verificare
che diamine stava succedendo, o magari cercare un’ultima volta di tirar fuori
di nuovo la sua decisione virile e parlare col conducente ordinandogli
perentoriamente di rimettersi in marcia, ma non ce la fa, non ce la fa più. Rimane
immobile, teso, rigido fino a sentire dolore, piantando le mani sui lati
opposti della cabina, curvo nell’abitacolo, senza poggiarsi sul sedile, come
pronto a scattare, madido di un sudore gelido. Per minuti interi, rimane
immobile, senza prendere una decisione. Alla fine trova il coraggio e si
affaccia per vedere cosa succeda, senza essere visto dal conducente, cercando
di non farsi notare. Nulla! Il cocchiere senza dire una parola riparte, più
veloce di prima, correndo come un matto, senza che accada alcunché.
Al villaggio dove lo attendono coloro che lo avevano
accompagnato, inizia a correre come un ossesso, vaneggiando costringe tutti a interrompere
le loro partite a scacchi, e li fa partire immediatamente di gran carriera. È
evidente a tutti quanto il poveraccio sia scosso, e viene assecondato. Durante
il viaggio non riesce a calmarsi: o siede rigido e sudato in disparte, o inizia
a tremare colto da uno strano malessere, blaterando che vorrebbe sempre far più
in fretta. Parla di una lettera che ha perso e che se trovata lo metterà nei
guai, che quello che ha visto non avrebbe saputo ridirlo, che la lettera non sa
come l’ha persa, che ha avuto una gran fortuna, una gran fortuna, che quello
beve il sangue. Frasi sconclusionate che parlano di impalamenti, filosofia,
egoismo, guerra. E insiste e ridice mille volte le stesse cose, senza che
nessuno capisca del tutto a cosa si riferisca, cosa voglia esattamente
comunicare.
Devono essere vere tutte quelle storie sul quel posto, hanno
fatto bene, loro altri, a dargli credito e a non credere a chi diceva che erano
solo esagerazioni e leggende. Hanno fatto bene a tenersene alla larga, a
rimanere comodi, nella loro osteria stamberga, a giocare e bere. Guarda quel
poveraccio invece!
I suoi compagni cercano di rassicurarlo in ogni modo e di
convincerlo che non si corre più alcun pericolo, ma lui non pare essere in
grado di ascoltare o capire.
Epilogo.
Settimane dopo, di regresso a casa, alla vista della moglie,
non riuscirà comunque a tornare in se. La abbraccia tremante e balbettando,
senza essere comprensibile. Da lì in poi non riuscirà, per anni interi, a
dormire con un minimo di tranquillità, né recupererà mai del tutto la facoltà
della parola. Continuerà ad esprimersi sempre a fatica, bisbigliando e
biascicando poche frasi timidamente e solo alla moglie. Le sue facoltà mentali,
rimarranno sempre gravemente compromesse, i nervi non lo supporteranno più e
parrà imbiancato e stanco come fosse già in età avanzata, pur essendo solo alla
soglia dei trenta. Unicamente alla vista e in compagnia della consorte sarà
visto con un minimo di serenità e sorridente. Ella, dal canto suo, gli sarà sempre
fedelmente accanto, per il resto dei suoi giorni, senza abbandonarlo mai e
riempiendolo di un amore e di una dedizione dei quali lui parrà in eterno infinitamente
avido e dipendente.
Iscriviti a:
Post (Atom)