giovedì 26 luglio 2012

SPEDIZIONE AL CASTELLO (Racconto basato su nuove fonti su Vlad Țepeș)



Premessa.
È necessario formulare delle puntualizzazioni in merito al racconto che segue, ispirato a fatti realmente accaduti. Un recente esame di carte non ancora diffusamente studiate, proveniente da un archivio di fonti dirette, solo recentemente rinvenuto, sulla figura storica del celeberrimo Vlad III di Valacchia, il famoso Vlad Țepeș, personaggio da cui notoriamente è stato tratto quello letterario di Dracula, ha fatto emergere, tra molto altro materiale, una lettera estremamente interessante. Essa, priva di data, ma probabilmente risalente al 1459, è al vaglio degli studiosi e sono in corso ricerche piuttosto complesse.
Ho avuto il privilegio di poter apprende i primi ed immediati risultati degli accertamenti, ed entrare in possesso di una traduzione della stessa, per intercessione di un amico a conoscenza del mio interesse per temi così orridi. Egli è un ricercatore universitario nel gruppo di studi diretto scopritore del reperto storico, partecipa in una collaborazione tra due università inglesi e quella di Bratislava e mi ha chiesto di non comparire direttamente.
È sorto tra noi un intenso carteggio sul rinvenimento e sul contenuto della lettera e, se fossi chiamato a dire la mia su quanto egli mi dato a conoscere, direi che, oltre alla storia in se, qui di seguito narrata, essa è davvero raccapricciante, incuriosisce e sorprende come dai dati in esame traspaia una inedita versione del personaggio finora conosciuto di Vlad.
Il famigerato guerriero e despota, smisuratamente crudele, dato questo arcinoto e leggendario, parrebbe essere stato anche incline ad affrontare temi di ordine generale in modo pressoché speculativo filosofico e con certo grado di astrazione, interessato alla ricerca di principi e motivazioni sistematiche sul comportamento umano, oltre che invaso da inquietudini esistenziali. Tutto ciò per quanto, ben’inteso, portasse avanti tali temi in modo del tutto eccentrico e assolutamente deviato.
L'oggetto di studio da parte del gruppo di ricerca è la lettera stessa, appunto, mai inviata dal suo redattore, e che, da una prima ricostruzione, probabilmente fu intercettata e rimase al maniero dove Vlad viveva in quel tempo e da dove dirigeva le sue campagne di contenimento dell'Impero Ottomano.
Essa fu redatta da un emissario di un piccolo regno limitrofo ed era destinata a sua moglie. Si ignora, e si stanno facendo ricerche meticolose in proposito, se il carteggio fosse stato più esteso, ma per ora ciò pare potersi escludere.
Fu scritta con grafia a tratti malferma, molto rapida e minuscola, nella notte anteriore alla partenza da quel luogo che egli stesso definisce: “maledetto ed abitato da orrori ineguagliabili”.
La missiva è, tutto sommato, in buono stato, leggibile nella sua gran parte, e, la prosa, piuttosto scorrevole ed elegante, fa pensare ad un estensore di grande preparazione ed intelligenza, educato, colto, di doti eccellenti, specie se si considerano la giovane età e le orrende circostanze in cui si trovava nel frangente in cui essa fu redatta.
A tali circostanze, ed al terrore che ne derivò, devono probabilmente attribuirsi le occasionali brusche interruzioni di tema, i salti o le reiterazioni non necessarie di alcuni concetti, che verranno omessi nella storia proposta a continuazione.
Lo scritto è praticamente privo di correzioni e cancellature, probabilmente fu vergato di getto nell'arco di poche ore, su di un unico foglio quadrato, trovato aperto, di dimensioni piuttosto grandi poi piegato e chiuso con spago e cera lacca. Si sta studiando per far emergere tutti i dati che contiene e, ove sia possibile, i riferimenti e rintracciarne i fili. Nel frattempo mi sono permesso di formulare una proposta personale tutta da verificare.
Eviterò di riportare tecnicismi e alcuni passaggi, verosimilmente i più importanti ed interessanti dal punto di vista storico-aneddotico, relativi a identità e provenienza dei personaggi implicati nella vicenda, anche perché non sono del tutto chiari i dati anagrafici di ciascuno. E neppure del tutto chiarita dovrebbe essere l'intera e penosa vicenda vissuta dal gentiluomo, sul quale e sulla cui storia personale, il mio amico, con altri, ha iniziato una ricerca specifica che s’è già rivelata tanto fruttifera quanto bizzarra e tristemente interessante. La parte finale del racconto andrà quindi verificata.
Qui di seguito propongo perciò una ricostruzione il più attinente possibile ai dati fattuali in possesso sino al momento, di avvenimenti probabilmente occorsi al malcapitato redattore della missiva oggetto di studi, ma completati da aggiunte provenienti solo dalla mia fantasia. Ribadisco pertanto che, nonostante l’interesse del mio amico per la ricostruzione della storia come da me praticata, quanto segue non ha alcun valore storiografico e non ha nessun vincolo con l’ambiente accademico e i relativi studi che si stanno portando avanti.
Le numerose frasi poste in virgolettato e corsivo sono comunque attinte in modo diretto dalla scrittura in esame

Una possibile ricostruzione degli avvenimenti.
Durante alcuni periodi particolarmente caldi dal punto di vista bellico, vari Regni, Stati o Feudi confinanti con quello retto da Vlad, sia importanti e piuttosto estesi, così come più piccoli e di minor momento, erano usi mandare dei loro ambasciatori ed emissari a conferire con lui per informarsi sulla politica e le intenzioni militari di costui. Ciò col fine di stipulare accordi o alleanze, formulare richieste o offrire appoggi, e curare tutto ciò che concerne diplomazia e relazioni vicinali in una zona calda e dal futuro incerto.
L'estrema crudeltà e mancanza di umanità del personaggio erano risapute, quand'anche, da quanto più volte emerso da numerosi testi, molti dei diplomatici inviati, così come, si spera per la salvezza delle loro anime, di coloro che lì li inviarono, ne misconoscevano le esatte proporzioni, i contorni e l'estensione.
Orbene, in una delle spedizioni diplomatiche che vennero realizzate a quel tempo si trovarono a coincidere (non si sa se intenzionalmente, né, invero, quali e quante di preciso) nel castello varie delegazioni contemporaneamente. Il famoso condottiero cristiano fece sapere agli ambasciatori che li avrebbe ospitati per tre giorni e due notti, avendo così il tempo di illustrare ad essi cosa tornare a riferire ai loro rispettivi luoghi di origine su come intendesse portare avanti la sua lotta ai turchi e di cosa avesse bisogno allo scopo.
L'autore della nostra lettera, un rampollo di buona famiglia ben educato e indirizzato alla carriera militare, pur avendo ascoltato molte storie sul personaggio che avrebbe visitato, il testo lo dice chiaro e tondo, aveva, si deduce, accettato il prestigioso incarico di ambasciatore ignorando completamente sia lo stato mentale e la personalità esatta del condottiero, sia il panorama in cui si sarebbe trovato una volta giunto là.
Si riesce ad immaginare con certo grado di approssimazione anche che un incarico del genere, evitato da tutti, fosse stato affidatogli proprio in virtù della sua giovane età, nonché del poco potere che aveva al momento la sua famiglia, e che lui lo accettò, probabilmente alquanto raggirato, solo in considerazione delle benemerenze e del lustro che esso incarico gli avrebbe procurato sulla sua carriera futura.
Il giovane narra dello stupore con cui dovette apprendere che, all'approssimarsi alla destinazione, le persone che lo servivano, del posto o forestiere che fossero, lo abbandonarono in un villaggio ed egli, come pare fosse ormai prassi, fu mandato a prendere da un servitore del castello dove giunse completamente solo.
Avvicinandosi racconta dell’accorato malessere e dello sgomento con i quali notò che l'aria si faceva via via sempre più spessa e irrespirabile e che, inorridito, approssimandosi ancora alla destinazione, dovette contemplare, tra le brume e le foschie del luogo, “centinaia e centinaia di pali che trafiggevano esseri umani e sporadicamente anche bestie”.
È nota l'abitudine ossessiva di Vlad per l'impalamento, fatto che probabilmente il nostro non ignorava del tutto, ciononostante egli narra, delle specifiche circostanze in cui era venuto a trovarsi, come di qualcosa che “per estensione e quantità era del tutto inaspettato e superava di gran lunga ogni immaginazione sui peggiori orrori che la mia mente avrebbe mai potuto concepire”.
Una volta nel castello, sia il tanfo di escrementi e cadavere, sia i penosi lamenti di persone ancora in agonia, “facevano tremare le gambe e disegnavano una smorfia di nausea e malessere su tutti i presenti che non fossero del posto”.
I vari ambasciatori furono ricevuti insieme ed accolti con sobria cerimoniosità dal padrone di casa. Il tratto e i fraseggi, intercorsi tra i diplomatici e la nobiltà del posto, erano involti in una serie di cortesi modali che assumevano i contorni dell'assurdo e del grottesco, nella circostanza specifica, posto che assolutamente nessuno dei presenti si sentiva a proprio agio e che tutti erano enormemente turbati per lo scenario che si era palesato e “il cui orrore pareva amplificato proprio dal procedere del cerimoniale di accoglienza stesso”.
Essendo stati però avvisati della “estrema permalosità” del personaggio che andavano a visitare, ed essendo portati, dallo spettacolo macabro in cui erano immersi, a temere, forse anche per istinto, ritorsioni, di certo “intimiditi dalla distesa di cadaveri e morituri”, e infine impressionati anche dalla “solerzia angosciata e terrorizzata dei servitori” nella realizzazione di ogni loro attività, nessuno osò dire una parola, né accennare al minimo segno di disgusto o disagio.
Il Signore del posto invitò tutti a cenare con lui quella stessa sera, e ciascuno acconsentì “con mostre di falsissima gratitudine”. Solo uno di loro, che si giustificò adducendo la stanchezza del viaggio a causa della grande distanza del suo luogo di provenienza, la salute alquanto malferma, ed una serie di ragioni più o meno fragili, ma imbellettate da una elegante oratoria e una cortesia a dir poco impeccabile, declinò l’invito e gli fu concesso di ritirarsi. Il nobile, con fare pragmatico e militaresco, non insistette oltre e tutti gli altri “parvero invidiare quello scaltro collega che aveva avuto la presenza di spirito di manifestare ed ottenere quello che ognuno di loro pure avrebbe voluto per se”.
A cena il tiranno ringraziò gli ospiti della loro presenza e della compagnia che gli regalavano, “gradita almeno quanto infrequente in tale numero”. Probabilmente erano presenti cinque persone, se si comprende l’assente “giustificato”. Con una retorica fine, ma priva di bellurie, affermò infatti di essere “uomo solitario, ed eccellente nelle sole doti militari”. Purtroppo, ammise, a volte inadatto ad una troppo sviluppata vita sociale, circostanza di cui era il primo a dolersi. Così parlando, per il tono, l'affabilità, l'eleganza marziale, a tutti parve “un guerriero stupendamente educato, fermo e leale, dalla mente del tutto coerente ed ordinata”.
Egli proseguì illustrando temi che accomunavano le sorti ed erano di interesse per tutti i presenti, riguardo alla situazione militare, lo stato politico e bellico delle terre di confine ed una serie di questioni geopolitiche a strategiche complesse e magnificamente sviscerate in una sintesi asciutta e perfetta. Nell'illustrare il tutto con tanta competenza e precisione, “parve persona di doti e arguzia infinite, consapevole di ogni implicazione ed anche vagamente stanco del suo duro ruolo costantemente legato al conflitto in lande di confine”. Disse di aver dimenticato che potesse esserci una vita priva di battaglie, sangue e morte, ma che quello era il ruolo che la Provvidenza gli aveva assegnato in vita, e che lo avrebbe svolto al meglio e fino alle estreme conseguenze, in esecuzione dei piani divini.
Mentre parlava in modo tanto impeccabile, di tanto in tanto, tuttavia, si levavano e raggiungevano la sala alti lamenti e grida raccapriccianti, che ricordavano a tutti da quali atrocità erano circondati. Il nobile militare, a volte parendo consapevole, ma non turbato, dalla situazione di disagio di chi non era abituato alla permanenza al castello, proseguì manifestando la necessità di esercitare in modo tanto plateale e crudo la fermezza, essendo egli l'unico vero baluardo contro nemici fanatici, che lo superavano in numero di molte volte e disposti anche loro a tutto. La fornitura di un senso strategico militare, vale a dire ”razionale”, pur nella sua estrema crudezza, di quanto aveva fatto inorridire ciascuno degli stranieri all'approssimarsi al castello, parve far tirare un sospiro di sollievo agli stessi, o per lo meno, il nostro racconta di essersi sentito “lì per lì sollevato”.
Prima di iniziare a desinare, dopo un acuto urlo straziante e spaventoso proveniente dall'esterno, che gelò il sangue di tutti, il padrone di casa concluse dicendosi dispiaciuto dell'assenza di uno di loro, “che attende in altro loco”, e manifestò il suo disappunto affermando, velatamente contrariato, di non gradire le perdite di tempo e l’essere costretto a ripetere più volte le stesse tediose storie. Durante la cena i servitori erano di una silenziosità e celerità impressionanti e sembrava che, quando il padrone ne guardava qualcuno, ciascuno di loro facesse di tutto per uscire di scena e dalla sua vista il prima possibile, ma non ci furono incidenti di sorta.
La serata andò avanti senza intoppi e, per il giorno seguente, Vlad dispose un giro mattiniero per le terre circostanti il castello al fine di discutere di politica e di diplomazia, “senza prendere alla leggera tali temi e senza distaccarsi troppo dalla crudele realtà quotidiana in cui, immerso, era costantemente costretto a prendere dolorose decisioni”.
Poco dopo l’alba la colazione fu servita all'aperto nel cortile del maniero, prima di uscire per quella “ricognizione che nessuno avrebbe voluto realizzare”. Mancava di nuovo l'ambasciatore del giorno anteriore, ma, per paura di essere inopportuni, ed anche per “essere indotti dall'atmosfera in cui erano immersi, a pensieri lugubri”, nessuno chiese di lui, né l’ospite accennò all'argomento.
Quella mattina però tra la servitù serpeggiava certo percepibile terrore. Un domestico, probabilmente di origine turca e preso in prigionia, era tanto terrorizzato che, vuoi anche per il clima freddo, non riusciva ad evitare di tremare e si notava che, mentre teneva il vassoio d'argento in mano, doveva fare uno sforzo immane per non rovesciare qualcuno dei contenitori che vi poggiavano. “Tale e tanto era il tremore che il metallo ed i cristalli posti vicini tintinnavano senza posa”.
Durante una lunga pausa di silenzio assoluto quei rumori divennero evidentissimi. Il padrone si rivolse al domestico in prima persona, direttamente, chiedendo se qualcosa di specifico lo turbasse e quello per lo spavento, nell'ansia di dover concepire una risposta, iniziò un'incomprensibile e angoscioso balbettio. Il padrone incalzandolo a rispondere aumentava il suo terrore e la conseguente incapacità a destreggiarsi. La scena era orribile, il poveraccio fece una pena infinita a tutti, non gli fu possibile articolare una sola frase di senso compiuto, ma nello sforzo rovesciò un paio di bicchieri. Al che il despota si imbestialì e ordinò che lo portassero via, coprendolo di improperi. Poi chiese agli ospiti di scusare il malcapitato per la sua goffaggine, aggiungendo che da quell'incidente sarebbe nata però l'occasione di spiegar loro, con maggiore chiarezza, il suo ruolo e il senso della sua presenza nel mondo.
Sicché si avventurarono al di fuori delle mura, dove iniziava una distesa apparentemente sterminata di impalati. All’aprirsi dei cancelli, “tutti erano già piuttosto turbati dal temperamento dell'ospite, dalla brusca virata del suo contegno, e dalle ipotetiche conseguenze delle sue parole, ma senza dubbio l'attenzione andò tutta ai malcapitati vittime delle terribili esecuzioni per impalamento”.
Alcuni dei pali trafiggevano carogne ormai decomposte, ridotte quasi a scheletri, preda di agenti atmosferici e uccelli, altri cadaveri erano più recenti, a volte nudi, gonfi, scuri, ed alcuni pali dovevano attraversare persone ancora in vita, posto che si udivano “benché flebili, piuttosto di rado e senza poterne stabilire la sicura provenienza”, gemiti, lamenti di ogni sorta. In ogni caso i corpi erano in tal quantità che occasionalmente il sangue “gocciava sulle delegazioni, forse trasportato dal vento o dai becchi dei corvi, come piovesse dal cielo”. C’erano pali molto alti, ma in altri i corpi erano quasi ad altezza d'uomo, con la testa dei trafitti poco più su di quella dei passanti. Nella maggior parte dei casi il palo usciva da una scapola, e il capo pendeva insanguinato da un lato, ma ad uno sguardo attento si vedevano “decine e decine di variazioni della tecnica di impalamento, che non dovevano essere casuali, e che di certo avevano conseguenze raccapriccianti sulla dolorosità del trattamento e la durata dell’agonia”.
Gli ambasciatori, tranne il giovane “curioso seppur terrorizzato”, cercavano di evitare di guardare i dettagli. Avevano assunto una strana smorfia degli occhi e del viso nel tentativo di ridurre la loro percezione e in preda al raccapriccio, mentre il condottiero pareva tranquillo e a suo agio in quell’ambiente. Tutti, comunque, preferivano porre lo sguardo su di lui, “con un maldestro e vile sorriso che pareva un ghigno ipocrita”, piuttosto che sul panorama circostante ed egli camminava soldatescamente, scortato da un piccolo manipolo di quattro enormi guardie armate in modo appariscente e ricco. Procedeva come se cercasse un punto determinato della radura.
Raggiunsero un piccolo gruppo di persone, e “diradatasi la foschia, riconobbero tra altri soldati di stazza particolarmente robusta anche loro e volti spietati e inespressivi, il malcapitato servitore balbuziente”. “A tutti fu immediatamente chiaro che avrebbero assistito a una esecuzione, spettacolo che ognuno avrebbe voluto evitare di contemplare e che riempì tutti di accorata angoscia”. D’altra parte, tranne il giovane, gli altri tre emissari presenti erano dei diplomatici professionisti, “di età più o meno avanzata, dediti ad opere di concetto e non d’arme”.
Vlad asserì che per capire il mondo nulla supera l’esperienza diretta, e che veder morire una persona per impalamento era dunque l’esperienza che ciascuno che voglia parlare di guerra e di questioni militari deve vivere direttamente, a meno che non voglia cianciare a sproposito e dar fiato al vento. Fino a lì nessuno mosse un dito, protestò o disse neppure una parola su quanto stava per succedere. Tutti erano semplicemente agghiacciati e spiacevolmente sorpresi dalla piega delle circostanze e parevano ammutoliti e incapaci di decidere che atteggiamento assumere.
Quando fu dato il comando di procedere, il servitore, che fino ad allora era inginocchiato e singhiozzava spaventato e rassegnato, ebbe una sorta di repentino sussulto. Il suo carnefice, probabilmente il capo delle esecuzioni, “con una smorfia beffardamente crudele disse ai presenti, tra ghigni vari dei commilitoni, che sempre succedeva lo stesso e che gli esseri umani sono tutti eguali”. Il poveraccio urlava ora in preda al panico, chiedendo di non venire ucciso, e si dimenava, con un vigore e una disperazione tali, che già solo quello spettacolo turbava oltre misura la platea. I soldati non avevano invero difficoltà alcuna a tenerlo fermo, ma a volte “pareva che lo facessero dimenare alquanto solo per dargli crudeli false speranze” e giocare sulla sua morte.
Nel volger di un tempo che parve brevissimo agli spettatori, i nerboruti gendarmi erano inesorabilmente riusciti a inserire saldamente il palo nel corpo della vittima e ad ergerlo verticale nonostante gli immani sforzi di questo per cercare una via di scampo. Il tronco era unto e scivolava lentamente dentro la vittima che stringeva forte i pugni contratto in una agghiacciante smorfia di dolore, “incordando ogni muscolo fino allo spasmo come se così facendo potesse espellere il palo o evitare che gli scivolasse dentro”. I soldati, invece, parevano attenti a indirizzarlo in modo che seguisse un percorso determinato che non lesionasse organi vitali cosa che avrebbe accorciato l’atroce agonia che lo aspettava.
Vlad pareva soddisfatto del lavoro dei suoi uomini. Tranne i militari e il giovane, che, credendo fosse la miglior soluzione, dissimulava l’orrore “attingendo con ogni forza la sua imperturbabilità dal contegno proprio della lunga educazione militare ricevuta”, gli altri parevano evidentemente invasi dall’orrore più intenso: “chi si mordeva una mano nervosamente, chi stringeva i pugni e rimaneva rigido su se stesso, chi contorceva le mani e si toccava freneticamente il volto sudato ed imbarazzato senza riuscire ad avere posa”. Le urla di terrore erano atroci. Il capannello di spettatori seguì scosso e taciturno il despota che, con le guardie, si allontanò dal posto fino a un punto dove le stesse fossero ancora udibili, ma non preponderanti.
Gli aveva dato quel che meritava, fu l’affermazione del signore, “uno incapace di essere utile perfino come domestico come potrebbe mai giustificare lo spreco di risorse che si realizza per la sua sussistenza in questo mondo?” Poi facendo mostra di dirigersi allegramente all’impalato, e insultatolo per essere un infedele, lo scherniva dicendogli che il palo che gli sarebbe presto uscito dalla bocca serviva a non fargliela usare ancora a sproposito, come stava facendo ora con quelle urla da maiale, dopo che non era stato in grado di usarla quando gli era stato richiesto. Questa affermazione fu detta con tale disprezzo per la vita umana e con tale cinismo provocatorio, che gli altri ambasciatori, che già si notavano molto turbati, parvero in procinto di ribattere qualcosa, ma nessuno si mosse.
Il nostro giovane invece riusciva, anche se con estrema fatica, a mantenere una apparente calma e di certo non avrebbe, anche per rispetto dell’età degli altri, osato dire neppure una parola lui per primo.
Vlad aggiunse una descrizione della sorte del malcapitato, dicendo che “quell’inutile porco infedele sarebbe rimasto vivo probabilmente per un altro paio di giorni, avendo tra dolori e sofferenze indicibili, forse anche tempo per pensare in che diverso modo avrebbe dovuto condurre la sua lurida vita”. A nessuno che si ritrovi di morire in tal maniera potrebbe mai venire in mente che la vita vissuta sino ad allora sia valsa la pena. L’ultimo tassello di essa ne diviene, senza dubbio, la parte più rilevante, l’unica davvero importante, cancella tutto il resto ed ogni gioia e piacere, rende evidente che sarebbe stato meglio, per lui, non essere mai nato. Nessuno pensa mai, mentre vive, che potrebbe finire in quel modo, ma questa diviene la realtà per una infinità di persone, e quando questo accade, e realizzano di non avere scampo, tutti reagiscono allo stesso modo. Così come nessuno sa di preciso quanto scotti il fuoco, e una volta bruciatosi urla.
A quel punto uno dei presenti, un blando e paffuto cicisbeo di mezza età, parve avere lo stimolo di rimettere, ed il signore del posto lo fulminò con uno sguardo pieno “più che di odio, di disprezzo, o di entrambi in egual misura”, mentre piegato poggiava una mano ad un palo molto alto e ansimava in preda alla nausea e all’orrore.
Vlad iniziò ad illustrare quella che pensava fosse la missione della sua vita. Iniziò con una frase strana, “io non sono che un piccolo dedalo di un immane labirinto voluto e creato da Dio in persona. Un dedalo nel quale il malcapitato che si immetta non troverà alcuna pietà. La missione a me riservata è quella di spargere tutto il dolore e la sofferenza che io possa verso il prossimo ed io a questa vocazione risponderò senza posa. Il luogo che io rappresento dell’immane città divina è il peggiore, la mia missione vincere e far trionfare il volere di Dio, e per questo ho necessità di persone che non abbiano compassione come non la ho io. Su qualcuno deve ricadere questo compito, per liberare da esso le coscienze degli altri esseri umani, ed è su me che la mano di Dio conta. Attraverso di me agisce sul mondo, compiendo quello che ha già stabilito e scritto nella notte dei tempi e che io non posso modificare. Ho bisogno solo di persone come me, per portare a compimento l’inesorabile volontà della sua mente onnisciente. Per questo non sopporterò mai la viltà ovunque la veda, e per questo chi di tale debolezza è macchiato non potrà mai essere a salvo da me né potrà mai servirmi o aiutarmi in nessun modo ”.
Aggiunse che tutti potevano biasimare a piacimento la sua guerra e la sua missione, ma che al contempo tutti se ne avvantaggiavano. Si industriavano a blandirlo offrendogli appoggi ed aiuti che non gli erano utili, mentre in cuor loro albergava la falsità e l’ipocrisia e lo disprezzavano quando erano nelle loro case. Ma il dolore è come ogni altro strumento, e lui sapeva solo usarlo con sapienza e disinvoltura.
Dopo il suo discorso macabro e delirante Vlad indicò ai suoi uomini l’emissario che aveva avuto il mancamento prima che egli iniziasse a parlare. Loro lo afferrarono mentre quello, incredulo sul fatto che avrebbe seguito la stessa sorte di tutti coloro che lo circondavano, ricordava all’ospite non solo i suoi doveri come tale, ma anche le norme che gli proibivano, in quanto diplomatico e per di più di nobili ascendenti lui stesso, di poter essere attaccato e a maggior ragione essendo un rappresentate di un altro regno in pace col suo. Le parole gli uscivano freneticamente per la paura che l’esecuzione si realizzasse davvero, ma forse in quel momento non credeva che ciò sarebbe potuto succedere. Non aveva senso! I soldati lo tenevano comunque fermo mentre Vlad lo ascoltava come se stesse riflettendo sulle sue parole ed esse potessero avere un effetto di qualche tipo. Poi, senza modificare di una virgola le disposizioni date, ordinò di procedere affermando che tutte le regole ricordate dal condannato non vigevano lì dove era lui. In quelle terre di confine, così martoriate da una guerra perenne, il concetto di pace era stato smarrito tempo addietro, così come ogni limite e ogni diritto e l’amicizia verso chi si giovava del suo lavoro, mentre comodamente rimaneva inerte e beato lontano da lì.
Quando i soldati iniziarono a manovrare con funi e aste come avevano fatto precedentemente “il malcapitato iniziò a balbettare delle pietosissime suppliche e a piangere disperato e in modo inverecondo, mentre con ogni forza strattonava e si dimenava senza posa. Poi iniziò a urlare in preda al panico”. Lo stesso soldato di prima reiterò che a un certo punto tutti si comportano allo stesso modo, mentre anche Vlad pareva divertito e complice della battuta. Il condannato a morte urlava e implorava di essere ucciso in altro modo, ma il tiranno non lo stava a sentire, e anzi gli diceva caustico solo di smettere di essere così tedioso, mentre quello era già erto sul palo che stava per trafiggerlo.
Uno dei due diplomatici rimasti oltre al ragazzo si fece coraggio e, chiedendo di essere ascoltato, intercesse, parlando in modo egregio, per il suo collega in ambasce, mentre il secondo anche, ma più timidamente, implorava di risparmiargli la vita o almeno concedergli una fine più onorevole e consona ai suoi titoli, se tanto lo aveva offeso il suo contegno. “Il discorso del primo era oltremodo ben costruito, rispettoso, motivato, non poteva in nessun modo essere preso come una offesa o una mancanza di rispetto”, ma solo come una buona applicazione di concetti universali e carità cristiana. Mentre tutti ascoltavano quello che costui aveva da dire l’esecuzione si era fermata. Alla fine della requisitoria tempestiva e sintetica del diplomatico Vlad parlò solo per chiedere ai soldati per quale ragione si fossero rallentati nelle operazioni. Che difatti furono concluse nel volgere di pochi altri secondi. L’intervento dell’altro ambasciatore non era servito che a dare false speranze e allungare l’agonia di chi avrebbe voluto aiutare.
Subito dopo, come il tiranno sostenne lapidariamente, “per ribadire che i concetti illustrati dal suo ospite non avevano lì dove si trovavano il minimo valore e che lui procedeva secondo il suo capriccio, che era anche il capriccio e la volontà di Dio”, ordinò che anche il secondo gentiluomo, quello che aveva parlato così timidamente, e solo in appoggio pedissequo delle splendide idee del primo, fosse impalato. Si ripeté per la terza volta nel volgere di pochissimo tempo, la stessa orripilante scena e il giovane così come aveva fatto anteriormente, né disse una parola, né mosse un muscolo, né diede segno di turbamento, ma scelse, da qui in poi anche strategicamente, di “comportarsi come il più veterano, e rotto a tutto, dei militari”.
Più avanti il ridotto gruppo di persone formato dai due superstiti forestieri, il Signore del posto e le sue guardie, seguito dagli altri forzuti militari muniti di vari pali e funi, trasportati “come si trattasse di oggetti di normale amministrazione”, si fermò di nuovo. Il tiranno affermò di avere un ultimo spettacolo da mostrare agli ospiti e mandò uno di loro del quale aspettarono il ritorno per un po’, a prendere tre donne, una madre e due bambine.
Vlad chiarì che il palo dinanzi al quale stavano era “abitato da un filosofo”, probabilmente un precettore, vista la giovane età, che come altri in passato aveva voluto dargli la sua opinione “sul senso dell’esistenza umana, sulla superiorità della virtù sul vizio, e della mitezza sulla crudeltà”. Egli era stato per tutta risposta messo lì, proprio per dimostragli come se la mitezza fosse utile, non ci sarebbe finito, o ci sarebbe finito qualcun altro, o all’inversa il Grande Vlad sarebbe al posto suo, cosa che di sicuro quel “mite” ora desiderava con tutto se stesso.
Il filosofo, ancora vivo, sicuro non avrebbe mai potuto pensare, ormai che la sua posizione sarebbe potuta peggiorare, giacché stava morendo in tal modo, ma aveva avuto sfortuna, aggiunse l’impalatore. Le sue guardie avevano trovato la sua famiglia prima che egli spirasse e, visto che era ancora cosciente, come una ultima lezione e per fargli avere tutti i dati utili per sapere cosa pensare di esistenza, mitezza e virtù, avrebbe assistito all’impalamento di sua moglie e delle figlie.
Ora sì che avrebbe saputo dire la sua su quali siano e come funzionino le regole della natura, visto con quanta stupida competenza libresca ne andava cianciando. Le vie del Signore sono infinite e certe une è una orrenda disgrazia percorrerle.
I suoi sgherri senza battere ciglio impalarono tutta la povera famigliola. Vlad intinse più volte le mani nel sangue delle tre ultime vittime e lo assaporò. “Anche il sangue ha lo stesso sapore, sia di infedeli che di cristiani, il sangue pure è tutto uguale”, disse.
Raccontare quello che il giovane sentì in quei momenti, tutto l’odio feroce ed il disprezzo per quel mostro, e per i suoi aiutanti, l’indicibile orrore e il solo desiderio di non dover guardare quella scena, non potrebbe mai essere descritto. Egli stesso, tremante dice di non riuscire neppure ad approssimarsi a riferirlo, e di voler solo dimenticare e fuggire da quei pensieri e ricordi. Ma lì dinanzi alla scena, senza volerlo, pur riuscendo ancora una volta a rimanere apparentemente placido e inerte, o forse pietrificato, colto da una sorta di trance, al vedere le figlie piccole uccise in quel modo e ascoltando le loro urla, emise un involontario gemito di pietà. L’altro ambasciatore, invece, era sconvolto e terrorizzato, ma stavolta non accennò a dire una sola parola, o a muovere un muscolo.
Quando ebbero finito, risvegliandosi come da un incubo, si diressero tutti in silenzio, di nuovo verso l’entrata del maniero, entrando dall’altro lato da dove erano usciti, dopo aver compiuto tutto un giro attorno alle mura.
Appena prima di varcare i cancelli Vlad si fermò nuovamente, gettando di nuovo i due superstiti nel panico. Affermò che “il terrore ha un ruolo fondamentale nella sopravvivenza e che è da esso principalmente che le persone riescono a trovare lo stimolo ad andare avanti e a voler sopravvivere a tutti i costi”. “Tutti affermano di essere disposti a sacrificare la loro vita per questo o quello, ma quando arriva il terrore no!” Le più attaccate alla vita sono le persone terrorizzate. E ognuno è sempre e solo terrorizzato per sé e mai per gli altri. Perché nessuno è davvero generoso, tutti vogliono sempre e solo fare bella figura o salvarsi loro. Lui, sì, Vlad era generoso, lui combatteva una guerra giusta e che beneficiava tutti, senza ricavarne null’altro che la intima consapevolezza di essere la lunga e implacabile mano di Dio. Lui era l’unico essere umano generoso che il mondo avesse mai visto. Guardò fisso il diplomatico che aveva fatto il discorso a favore del primo collega condannato. Perché aveva intercesso per il collega? Perché vedeva se stesso in lui! E come mai si era fermato ora e non aveva più parlato, pur dinanzi all’uccisione di una donna e delle sue due bambine? Perché voleva solo salvare la sua pelle ormai! Per egoismo! Perché vista la fine del compagno non se la sentiva di rischiare, cercando di intercedere un’altra volta, con coraggio, in favore della donna e delle ragazzine, anche se in cuor suo reputava orribile la scelta di ucciderle. Ecco quanto valeva la sua pietà e i suoi condivisi valori cristiani di carità! Vigevano solo fino a che non arrivava il terrore per se! Dinanzi a questo terrore, che per lui ora era l’unico vero Dio, persino quello cristiano spariva, si cancellava di colpo, non ne rimaneva traccia. Infedele! Pagano! Neppure dinanzi all’esecuzione spietata di innocenti, parlava. E a vederla sottilmente, pure per egoismo aveva parlato prima, lo aveva fatto solo per guadagnarsi una benemerenza, cercando di far deviare le azioni della mano del Signore, cambiare quello che era già scritto, e pensando di non rischiare nulla di suo a tal fine. Questa arroganza, ma soprattutto questo egoismo erano lamentevoli! No, non avrebbe parlato, se avesse saputo da subito, che la pena per chi mente e cerca di raggirare con vane parole il tiranno è la morte, anzi, quella morte! Vlad, adirato, guardava ambedue i diplomatici “di volta in volta orientando su loro occhi smisuratamente crudeli e folli”, cercando forse un appiglio per decidere sulle loro sorti: se ucciderli, chi dei due o entrambi, chi prima chi dopo, e godendosi il loro terrore prima di dare l’ordine di impalarli. Poi distolse lo sguardo dal giovane, “fissando per lunghi istanti solo l'altro insistentemente, con un volto di abissale ferocia sul quale brillava un ghigno spaventoso e beffardo che l’altro faceva finta di non vedere e di cui fingeva pure di non capire il significato”. Poi fece un fischio e disse ai suoi che era giunta l’ora di terminare il lavoro iniziato.
Lo sventurato aveva già emesso un gemito di terrore, crollando sotto lo sguardo del suo ospite, invaso da paura e a causa della tensione, prima di ascoltare l’ordine di dover essere impalato pure lui. Aveva preso a tremare e piagnucolare. “Evidentemente Iddio pregando di essere risparmiato”. Ma dopo che Vlad si rivolse alle sue guardie, in uno scatto di folle lucidità, cercando una fuga e allontanandosi dal despota, estrasse un pugnale e prima che i militari riuscissero a mettergli le mani addosso cercò di ficcarselo nel cuore lanciandosi su di esso. Per la troppa esitazione, non gli riuscì di realizzare le sue sagge intenzioni e uccidersi. I soldati eseguirono, quindi, gli ordini del loro signore, dicendo al giovane che l’unica soluzione certa per lui sarebbe stata quella di tagliarsi la giugulare, nessuno avrebbe mai potuto fermare l’emorragia.
Vlad apparve piuttosto divertito dallo svolgersi degli avvenimenti e dai commenti dei suoi uomini, come se avessero una lunga serie di esperienze del genere in comune e si rivolse al nostro giovane con una sorta di strana, confidenziale e bonaria arringa, quasi a volergli illustrare un segreto: “il coraggio, vedi, è virtù tanto rara e tanto difficile da trovare che nepure quando si sa che è l'unica cosa che potrebbe salvarti, lo torvi, né per riuscire a mentire e a fingere di averlo, né puoi mentire e fartelo venire dal tuo stesso terrore”. I due entrarono, così, nel castello mentre gli armati rimasero all’esterno con altri.
Da lì in poi Vlad affermò di aver altre cose da fare e che se il giovane preferiva, invece di accompagnarlo, ritirasi, aveva tutto l’agio di farlo. Ma l’altro, pur confuso su quale potesse essere la miglior opzione per non dargli pretesti per essere impalato a sua volta, essendo convinto e tormentato dal fatto che egli avesse notato il suo gemito dinanzi all’esecuzione della famigliola, e sicuro che prima o poi gli avrebbe fatto pagare le conseguenze della sua viltà, cercò di impressionare il condottiero continuando con la recita della sua imperturbabilità accettando di seguirlo.
Durante il resto del giorno, a dispetto del terrore di poter essere giustiziato da un momento all’altro, non accade nulla di degno di nota, almeno confrontandolo con le atrocità vissute fino a quel momento: “la giornata più orripilante della sua esistenza, ormai segnata da quella infausta esperienza”.
Alla fine del secondo giorno, dunque, di tutti gli ambasciatori non rimase che il più giovane e ignaro. L’unico a rientrare al castello, forse grazie a quel suo contegno impassibile, che lo aveva distinto dagli altri, ma più probabilmente per il solo arbitrio del Signore del posto. Magari il giorno dopo, la giornata di impalamenti la avrebbe aperta lui per mostrare a altre delegazioni le regole del posto.
Forse la sua salvezza fino ad allora altro non era che un gioco sadico, come lo erano state le interruzioni e i rallentamenti delle esecuzioni. Di sicuro non poteva sperare di essere lasciato in vita a causa della sua giovane età, già che due bambine molto più giovani di lui erano state fatte impalare senza un battito di palpebra, dinanzi ai loro genitori. Sarebbe perito pure lui, ma se c’era una via di salvezza, essa poteva essere unicamente quella di continuare a mostrare la sua flemma e imperturbabilità da militare. Continuò a fingere di non temere di essere ucciso, conversando con il padrone di casa in tranquillità, entrambi agendo come se in quel giorno di delirio non fosse successo nulla di orrendo, e se gli altri colleghi non avessero perso la vita, e non ci fosse nulla di cui preoccuparsi.
Dopo la cena, il giovane si recò nella sua stanza senza che si verificasse alcuna situazione spiacevole. Una volta lì, solo, entrò in preda di una straordinaria agitazione e fu del tutto incapace di prendere sonno. Estrasse un foglio ed iniziò a scrivere alla moglie pur di riuscire a calmarsi un po’. Nel silenzio generale si distingueva solo il raspio della sua penna, e l’unica luce dell’intera ala del maniero era forse quella del bicchiere d’olio sul suo tavolo. Di tanto in tanto si arrestava, tendendo le orecchie al rumore di passi che si avvicinavano alla sua porta, altre volte doveva alzarsi dal tavolo e camminare un po’ per dissipare la tensione. In ogni caso era ancora convinto che non sarebbe uscito vivo dal maniero e sarebbe morto quella notte stessa. Così aveva aperto la finestra per avere una occasione di finire la sua esistenza senza subire le atroci sofferenze riservate agli altri. Spesso, al sentire i sinistri rumori esterni, si ergeva su uno sgabello, tendendosi tutto per ascoltare meglio, e si approssimava alla stretta apertura per essere pronto a saltare fuori qualora qualcuno fosse entrato bruscamente. Fu in quella notte di inferno che il nostro redasse il racconto di ciò che gli stava capitando.
Al mattino seguente, ancora insonne, aveva già chiuso la lettera e stava attendendo notizie sulla sua sorte, quando un inserviente bussò alla porta dicendo che una vettura lo stava aspettando per accompagnarlo al villaggio dove aveva lasciato la sua scorta. La gioia e una preziosa speranza si impossessarono di lui. Probabilmente per la fretta di andarsene, o proprio per quella gioia e quella speranza di riuscirvi, nell’impacchettare i suoi beni, perse la lettera che aveva redatto durante le lunghe ore di ambasce notturne. Essa dovette presumibilmente scivolargli da una tasca del soprabito mentre lo indossava con grande foga.
Prima di andarsene il padrone di casa, assai mattiniero volle congedarsi da lui, e chiedergli se egli aveva capito cosa doveva riferire, a coloro che lo avevano mandato, in merito alle sue necessità e alla situazione bellica che da anni stava affrontando. Di certo il giovane annuì. Aveva perfettamente capito che Vlad non aveva bisogno di dire neppure una parola a nessuno, e che qualunque offerta di aiuto o proposta commerciale era o inutile o fuori luogo. Delle altre delegazioni non sarebbe tornato nessuno a casa, il messaggio era altrettanto chiaro nel silenzio della morte e della scomparsa, ma lui aveva il privilegio di poterlo riferire di persona.
Il giovane salì in carrozza reiterando al padrone di casa saluti così ridicoli da poter sembrare delle beffe, ma l’avvicinarsi della possibilità di andarsene da lì, lo rendeva euforico. Al congedarsi con tanta gratitudine, sentiva di essere addirittura sincero. Il padrone di casa accettava le dimostrazioni di rispetto sorridendo scaltramente, come se fosse del tutto consapevole dei pensieri e del terrore, delle speranze e della radice appassionata della sue frasi. La vita, la vita e il terrore lo facevano vibrare tutto!
Ma l'unico superstite era ancora nel castello, il luogo del terrore. Nella mente del giovane albergava e si riaffacciava di continuo l’idea che tutto quello non fosse che l’ennesima farsa, che di lì a poco sarebbe stato fermato, o lasciato andare solo per essere riacciuffato e impalato più lontano, magari dinanzi a chissà che genere di altri spettatori, che saranno impalati a loro volta e così via. Beffe su beffe contro il mondo intero e contro di lui e la sua artefatta impassibilità che aveva radici solo nel terrore e nell’egoismo di cui con disprezzo aveva parlato Vlad il giorno prima.
Ormai sentiva di non resistere oltre alla tensione e di essere a punto di perdere il controllo proprio come avevano fatto tutti gli altri, stava per cedere al panico e all’orrore giusto un attimo prima della salvezza. Fece un ultimo immane sforzo.
Così gli parve di vivere un sogno quando la carrozza superò a spron battuto i cancelli e si diresse di corsa verso la campagna infestata di cadaveri.
Ormai iniziando a credere davvero di essere vicino alla salvezza, il giovane ebbe quel crollo emotivo che aveva paura lo avrebbe sorpreso in presenza di Vlad. Ma ce l’aveva fatta, invece, chiuse tremante tutte le tendine del veicolo, per non dover più assistere agli orrori che lo circondavano e avrebbero continuato a tormentarlo per il resto dei suoi giorni. Chiuse tutto per bene per non far vedere a nessuno, vivo o morto, come singhiozzava e lacrimava per la fatica e la tensione della recita, durata tanto a lungo.
Nel terrore, mise le mani tremanti in tasca, cercando consolazione nell’amore di sua moglie e il sogno di riabbracciarla, per avere in pugno qualcosa che si riferisse a lei. Cercò i racconti che aveva redatto per lei e che non le avrebbe mai consegnato, semmai fosse riuscito a tornare. Non le avrebbe detto nulla, per non trascinala in quel folle e raccapricciante vortice di disumanità, ma non rinvenne lo scritto.
Di colpo una nuova e invincibile ondata di spavento si impossessò di lui. Non era ancora abbastanza lontano da sentirsi al sicuro, forse non lo sarebbe stato fino al rientro a casa. Iniziò a sudare, il tremolio delle sue mani aumentò, il panico lo invase, chiuso dentro a quelle fragili pareti di legno che gli ricordavano una cassa da morto. Ogni metro che procedeva in direzione di casa sua sperava che non fosse l’ultimo, quando di colpo la carrozza si fermò.   
Egli iniziò a respirare forte e ansimare, senza il coraggio di scostare la tendina per guardare fuori e sapere cosa stava succedendo. Estrasse il pugnale. Silenzio assoluto! C’è Vlad lì fuori, lo sente, coi suoi sgherri, con  funi e pali, che attende che lui faccia la prima mossa, che lo farà impalare e morire sulla radura in innumerevoli ore di agonia, lontano da tutti, senza più rivedere la sua amata. Si mise la lama sulla gola. Anzi, forse l’aveva fatta rapire e c’era lei là fuori, la sua amata, nuda, impalata, morta, o agonizzante. Iniziò a piangere, terrorizzato, per il panico, frenetico, non sapendo se scendere dalla carrozza e correre cercando di fuggire, o aspettare, o scostare la tendina per verificare che diamine stava succedendo, o magari cercare un’ultima volta di tirar fuori di nuovo la sua decisione virile e parlare col conducente ordinandogli perentoriamente di rimettersi in marcia, ma non ce la fa, non ce la fa più. Rimane immobile, teso, rigido fino a sentire dolore, piantando le mani sui lati opposti della cabina, curvo nell’abitacolo, senza poggiarsi sul sedile, come pronto a scattare, madido di un sudore gelido. Per minuti interi, rimane immobile, senza prendere una decisione. Alla fine trova il coraggio e si affaccia per vedere cosa succeda, senza essere visto dal conducente, cercando di non farsi notare. Nulla! Il cocchiere senza dire una parola riparte, più veloce di prima, correndo come un matto, senza che accada alcunché.
Al villaggio dove lo attendono coloro che lo avevano accompagnato, inizia a correre come un ossesso, vaneggiando costringe tutti a interrompere le loro partite a scacchi, e li fa partire immediatamente di gran carriera. È evidente a tutti quanto il poveraccio sia scosso, e viene assecondato. Durante il viaggio non riesce a calmarsi: o siede rigido e sudato in disparte, o inizia a tremare colto da uno strano malessere, blaterando che vorrebbe sempre far più in fretta. Parla di una lettera che ha perso e che se trovata lo metterà nei guai, che quello che ha visto non avrebbe saputo ridirlo, che la lettera non sa come l’ha persa, che ha avuto una gran fortuna, una gran fortuna, che quello beve il sangue. Frasi sconclusionate che parlano di impalamenti, filosofia, egoismo, guerra. E insiste e ridice mille volte le stesse cose, senza che nessuno capisca del tutto a cosa si riferisca, cosa voglia esattamente comunicare.
Devono essere vere tutte quelle storie sul quel posto, hanno fatto bene, loro altri, a dargli credito e a non credere a chi diceva che erano solo esagerazioni e leggende. Hanno fatto bene a tenersene alla larga, a rimanere comodi, nella loro osteria stamberga, a giocare e bere. Guarda quel poveraccio invece!
I suoi compagni cercano di rassicurarlo in ogni modo e di convincerlo che non si corre più alcun pericolo, ma lui non pare essere in grado di ascoltare o capire.

Epilogo.
Settimane dopo, di regresso a casa, alla vista della moglie, non riuscirà comunque a tornare in se. La abbraccia tremante e balbettando, senza essere comprensibile. Da lì in poi non riuscirà, per anni interi, a dormire con un minimo di tranquillità, né recupererà mai del tutto la facoltà della parola. Continuerà ad esprimersi sempre a fatica, bisbigliando e biascicando poche frasi timidamente e solo alla moglie. Le sue facoltà mentali, rimarranno sempre gravemente compromesse, i nervi non lo supporteranno più e parrà imbiancato e stanco come fosse già in età avanzata, pur essendo solo alla soglia dei trenta. Unicamente alla vista e in compagnia della consorte sarà visto con un minimo di serenità e sorridente. Ella, dal canto suo, gli sarà sempre fedelmente accanto, per il resto dei suoi giorni, senza abbandonarlo mai e riempiendolo di un amore e di una dedizione dei quali lui parrà in eterno infinitamente avido e dipendente. 

sabato 21 luglio 2012

IL MENDICANTE DI GRAN VIA (racconto)


A Gran Via, a Madrid, dinanzi al Mc Donald’s sostava sempre un mendicante. Doveva essere afgano, kazako, armeno o qualcosa del genere, ma parlava bene lo spagnolo. Diceva sempre le stesse frasi, chiedeva venti centesimi per poter tirare a campare e aggiungeva uno strano orpello che non capivo del tutto: “fate l’elemosina a un re”. Passando di lì tutti i giorni lo avrò ascoltato mille volte e dovevo averci fatto il callo, posto che non mi chiedevo più se il titolo autoattribuitosi avesse un qualche fondamento, anche fantasioso, o fosse del tutto privo di senso. Un giorno mi trovavo con venti centesimi tra le dita e glieli lanciai senza dire nulla, né rallentare il passo. Stranamente, a quanto avevo visto non lo faceva mai, lui ringraziò, dicendo: “il sovrano ti ringrazia, signore”. Al che mi incuriosii, forse infastidii pure un poco, dato che tra i due quello che aveva fatto qualcosa per l’altro ero io che venivo sminuito nella sua fantasiosa attribuzione di titoli, rispetto a quello che riservava per se. Mi girai e gli chiesi perché mai sostenesse sempre di essere un re, e quale sarebbe stato questo suo ipotetico regno. Il mendicante sorridendo si tirò su con fare fiero e disse di essere il re più sfortunato del mondo, poiché aveva il regno più vasto, ma anche più inutile. Non ci vedevo chiaro, ero curioso, davvero aveva un regno questo tipo? “Quanto vasto?” chiesi, e “dove si trova?”. Quello serafico mi disse che il suo regno era smisurato, tanto grande che non sapeva neppure lui esattamente dove finisse, e nessuno aveva saputo dirglielo. Lui non poteva andarci, non aveva i mezzi per verificare, ma era ricchissimo. Immaginai che l’opzione migliore dopo quella, in assoluto privilegiata da me, di essere dinanzi a un cantastorie del tutto pazzo, fosse un esilio o qualcosa del genere. Gli diedi corda, ma lui mi smentì. Non era stato cacciato, era ancora suo il regno e di nessun altro. Iniziò a raccontare in modo posato. Ebbene dava il caso che fosse divenuto re, come sempre dovrebbe verificarsi, per diretta intercessione divina. “Dio è grande! Ognuno lo chiama in un modo, ma egli è uno e insegna a suoi figli quello che loro debbono sapere. A volte lo fa in modo beffardo. A me concedendomi il regno che tanto bramavo”. Non lo interruppi affermando di non essere per nulla un credente, parlava in un tono buffo e molto divertente oltre che intrigante, lo lasciai proseguire. Risultava che lui, di nobili natali, ma povero in canna, avesse in cuor suo un solo desiderio: quello di divenire ricco e tornare ad avere un feudo o, meglio ancora, un regno. Così tanto e così intensamente lo desiderava, che un bel giorno gli fece visita, a casa sua, Dio in persona, mascherato da anziano mendicante, il quale, dopo avergli detto che le sue brame erano così intense e ripetitive da averlo fatto decidere a risolvere la questione personalmente, e dopo averlo ascoltato, gli concesse un desiderio che si sarebbe preso cura di avverare. Lui ovviamente non credeva a nulla di quanto gli stava capitando, e iniziò a dileggiare il vecchio, che lo guardava bonario e sorridente. “Un regno mi vuoi dare? Ovunque voglia? Vasto quanto io voglia?”, “Sì”, rispondeva l’altro, “Il regno che vuoi, vasto quanto vuoi”. Anzi l’anziano gli fece anche delle proposte concrete, di luoghi della zona o anche più distanti, luoghi da sogno, o vaste pianure desolate, dimostrando anche una eccellente e stupefacente competenza astro geografica. Parlava di lune, raccolti, fertilità, orogenesi, conformazioni e dettagli tellurici e minerari, con una tale dovizia di particolari e, per quanto potesse riconoscere lui, una esattezza e competenza, stupefacenti. Davvero pareva che quei posti non solo li conoscesse, ma li avesse addirittura fatti lui in persona. Il vecchio era pacato, ma aveva un che di autoritario, lo invitò ad uscire di casa e fare quattro passi e lui, nonostante il caldo, non se la sentì di rifiutare. Iniziarono a dirigersi verso un luogo isolato e aperto. “E potresti darmi anche tutta la terra se te la chiedessi?” andava chiedendo lui in tono vagamente scherzoso e provocatorio, e il vecchio mendicante rispondeva: “se ti aggrada!”. Infine aggiunse: “qui tutto è mio, posso darti il regno che vuoi, posso darti anche un regno illimitato, sconfinato, o meglio ancora, infinito, se lo vuoi. Unico limite non ti concederò mai l’universo nella sua interezza.” Certo quello di avere un regno smisuratamente “vasto”, no, meglio detto, “infinito”, pareva veramente un qualcosa di grandioso e perciò, al contempo, pareva anche una menzogna bella e buona o una sparata tracotante che non aveva il minimo senso. D’altra parte, perché chiedere meno quando si può avere di più e si è già sicuri che, vada come vada, non si otterrà null'altro che un’insolazione seguendo quel vecchio demente? Iniziava così a maturare l’idea di farsi un po’ beffe di lui chiedendogli il massimo che offriva, per vedere come si sarebbe districato. Lo avrebbe deriso e schernito un po’, e infine sarebbero andati a bere insieme, che di certo doveva essere il fine che il vecchio cercava di ottenere con tutte quelle storie. Mentre pensava tutto questo erano, senza rendersene conto, giunti alla sommità di un piccolo colle brullo che dominava borgo e vallata, una vista magnifica. Il mio interlocutore si decise: “allora dammi un regno infinito”, disse. Il vecchio, senza discutere, tirò fuori da una bisaccia, e il mendicante fece lo stesso con me imitandone le mosse, una specie di tubo, un cilindro vuoto di alabastro, molto bello, ma senza nessun tipo di decorazione o fregio, perfettamente liscio, di una trentina di centimetri e un diametro di approssimativamente quattro, forato come una cannuccia e dello spessore di qualche millimetro. Era un bell’oggetto, stupendo nella sua semplicità, l’anziano lo maneggiava con cura, ed era perfetto, impeccabile. “Questo”, gli disse il vecchio, “sarà il tuo scettro, ed anche il modo per sapere quale è il tuo regno”. Il mendicante, che all'epoca era giovane, rimase molto perplesso, mi disse, non capiva cosa volesse dire. L’anziano senza attendere domande proseguì dicendo che lui aveva scelto, tra tutte le opzioni a disposizione, e a causa della sua smisurata avidità, la più magniloquente, ma anche la più fatua. Il suo regno sarebbe stato la porzione di spazio all'interno del tubo di alabastro, quando tenuto in alto dalla sua mano su quel colle orientandolo esattamente da oriente a ponente. E ciò da ora in avanti, fino alla fine della sua vita e per tutti i prolungamenti del tubo in ambedue le direzioni fino alla fine dell’universo. Il suo regno era vastissimo, sconfinato, un tubo di pochi centimetri che attraversava altri mondi, lontani tanto che se si fosse messo in viaggio nel cielo in quello stesso momento non sarebbe arrivato a vederli prima della fine dei tempi. Il suo regno traversava pianeti e sfere celesti ricche d’oro e gemme, ma lui non avrebbe mai saputo trovarle e meno che mai agguantarle. Una parte di infinito è anche essa infinita, il suo regno era altrettanto infinito come era infinito quello di Dio, ma angusto come era angusta e sciocca la mente di chi lo aveva chiesto in dono. Il vecchio se ne andò lasciando il giovane perplesso e scoraggiato, non si fece mai più vedere. Lui dapprima impazzì pensando a quanto sarebbe stato ricco, se avesse trovato un modo per acciuffare tutto quanto era contenuto nella infinita porzione di spazio che gli era stata assegnata. Cercò tutti i metodi per calcolare su quali stelle si proiettavano i suoi possedimenti, quali in movimento attraversavano la sua traiettoria, le avrebbe considerate sue anche se per un tempo limitato. Preso da delirio iniziò a forgiare per sé i titoli più strampalati e altisonanti, e a chiacchierare e raccontare a chiunque la strana storia, fino a che tutti non risero di lui e non fu scacciato per essere divenuto un ubriacone presuntuoso e molesto, oltre che uno scroccone. Iniziò a vagare per la terra tutta, imparandone le lingue, e vivendo di elemosine. Ma poi dal suo incontro con Dio fu in grado di prendere il vero dono e comprese il senso dell’insegnamento che gli era stato regalato. Da allora non chiedeva mai troppo, si contentava di una moneta di valore medio concessa da generosi passanti, come me, per vivere.  

mercoledì 11 luglio 2012

RADAGASTO (Racconto)


Quando Radagasto gettò lo scudo, piantò la spada a terra e si tolse casco, occhiali e guanti, stava da solo. Non che fosse qualcosa di straordinario per un tipo schivo e meditabondo come lui, ma stavolta per chiunque ci sarebbe stato un grande spettacolo da contemplare. Sbuffò per il caldo, estrasse una bandana dalla tasca per asciugarsi il sudore dalla faccia. La carcassa del drago giaceva inerte occupando lo spazio di una portaerei, smisurata, colossale. Aveva realizzato l’impresa che nessuno era riuscito a compiere, e aveva fatto tutto da solo, forse un po’ nel suo stile, ammesso che uno come lui potesse affermare di avere “uno stile”. Ai voglia a lottare con armi moderne, sparare contro la bestia con ogni tipo di proiettile, invenzione e potenza di fuoco, tutti gli altri avevano fallito, non avevano fatto altro che peggiorare le cose, l’avevano fatto arrabbiare davvero. Era iniziato tutto anni prima, successo come entrando all’improvviso in un incubo che immediatamente intrappola tutti e diviene una realtà unica e inesorabile. Di colpo, da un giorno a un altro, appare una creatura crudele, potentissima, invulnerabile, che inizia a distruggere tutto quello che vuole, a suo comodo e senza possibilità di scampo per nessuno. Quello diventa il quotidiano di tutti, pure di gente pacifica fino alla noia, e non ci si riesce a far nulla. Al drago piace e interessa solo quello: devastare e uccidere. Si accaniva ora qua, ora là, copriva in poco tempo un’aria vasta quanto un continente, imperversava specialmente per l’Europa, ma poteva anche decidere di andare più lontano ancora. Quando appariva tutti si disperavano e da tempo ormai iniziavano a sperare solo che si allontanasse il prima possibile e portasse il suo fuoco distruttore e la sua maledetta coda da qualche altra parte. Si sperava solo che facesse del male ad altri, distruggesse altri posti. Ciascuno si arrovellava, per campare, puntando nel suo intimo sulla morte e sofferenza altrui. All’inizio no, avevano tutti fiducia negli eserciti, nella scienza, nella tecnologia: proiettili, per cominciare, poi cacciabombardieri e contraerea, poi razzi, infine onde, microonde, radiazioni, qualsiasi diavoleria, ma nulla di nulla, nessun risultato. Quello dava fuoco a tutto e basta, non si scalfiva neanche un po’. Il suo fuoco liquefaceva il metallo e la pietra o la sgretolava, la sua coda si avvinghiava ai palazzi, ai grattacieli e li frantumava, la punta di essa penetrava come una lancia contro qualunque cosa la scagliasse. Milioni di vittime, migliaia ogni giorno. Dopo un primo periodo quasi non si combatteva più, tutti si limitavano a fare scongiuri, piangere, disperarsi, parlare a bassa voce, chiamare o alludere alla bestia coi nomi più indiretti e obliqui, come se quella potesse sentirli, quando menzionata direttamente, e correre a punirli per le loro opinioni e il desiderio che crepasse. Iniziarono a fioccare leggende, storie, teorie parto della disperazione e interpretazioni escatologiche o ciniche di quello che stava succedendo. Sui draghi nella storia umana si sono create miriadi di storie; nessuno sapeva quali fossero vere e quali false. Oltre a quello che si poteva osservare direttamente, nessuno aveva la capacità di orientarsi. A partire dal nome, tutto era imprecisato, ingarbugliato, vago. Ognuno aveva dato un nome alla bestia, c’era chi lo chiamava semplicemente “il drago” o “la bestia”, chi “il gran verme”, chi “l’immane distruttore”, aveva decine e decine di epiteti che ricordavano altisonanti titoli nobiliari o piuttosto nomi simili a quelli di pugili famosi e letali: “il flagello d’occidente”, “il grande devastatore”, “la maledizione alata”, e si potrebbe continuare per pagine e pagine in tutte le lingue d’Europa e anche del resto del mondo. Alcuni iniziarono persino a dire che egli aveva un nome suo proprio che portava sin dalla notte dei tempi, e che lui era sempre esistito, altri dicevano addirittura di conoscerlo, il suo nome, ma lì non c’era accordo. Ad ogni modo si era imposta, così, senza alcuna evidenza certa del perché e del per come, la linea che voleva si chiamasse Tristiferion, o Tristiferior, o Tristiferione, forse in assonanza col greco: portatore; unito alla parola triste: il portatore di tristezza. Altri accorciavano il nome in Ferion, o Firion, ma più o meno queste erano le varianti più comunemente condivise come autentiche. Sia come sia, da quando era apparso, quel lontano giorno in cui la realtà era divenuta un incubo orrendo, non v’era altra priorità, altro desiderio nel cuore di ciascuno che tornare a quando il drago non era presente. A tutti nella memoria pareva che quel mondo fosse perfetto e felice come l’età dell’oro. La sua uccisione, quindi, sarebbe stata la più grande e magnifica di tutte le notizie, l’avvenimento più sperato e desiderato da chiunque nel globo e per adesso di ciò era al corrente solo il suo uccisore. Anche lui, da quando era apparso quel mastodontico rettile alato, aveva cambiato vita, forse anche lui era impazzito, come tutti gli altri; andava in giro armato di spada, portava uno scudo che s’era fatto da se. Alcuni dicevano che un drago può essere ucciso solo in singolar tenzone e da un'arma da taglio nobile come la spada. E anche lui come molti sapeva decine e decine di storie, leggende e racconti, teorie, sui draghi e le loro origini, la loro invulnerabilità, la loro esistenza. Storie di tutti i tipi, molte in conflitto tra loro, molte dovevano essere delle balle belle e buone. Alcune avevano origini ancestrali, altre erano recenti, la maggior parte pareva inventata solo per spaventare e paralizzare il cuore degli ascoltatori, divertire chi le raccontava col terrore della platea. Era un tema che era tornato di grande attualità, quello della natura dei draghi, e, come sempre, senza una base ragionevole, c’era chi asseriva di saperne più di altri, di essere “esperto”. I draghi non nascono, ci sono da sempre; oppure, sono rettili, nascono da uova colossali; oppure, sono creature siderali, non respirano, viaggiano da un pianeta all’altro in cerca di qualcosa da distruggere; e ancora, si sono creati nel centro della terra, tra magma e fuoco, là sotto ne è pieno, provocano i terremoti, e quando riescono a trovare un cammino che li porta in superficie ecco cosa succede; no, nascono sul sole etc. Radagasto sbuffò per la stanchezza. Stava facendo due passi attorno alle decine e decine di metri dell’immane carcassa che s’era schiantata contro il campo incolto dove s’era ingaggiata la battaglia, o piuttosto il duello. Si fermò un po’ a riguardare quando giunse in prossimità della coda. Prima di perdersi nei suoi pensieri ebbe la freddezza di rullare una sigaretta, ritrovò la busta del tabacco ancora intatta nella tasca dove la aveva lasciata. Le dita rispondevano bene, nonostante la paura, l’eccitazione, il nervosismo, e anche la fiacca e i vari acciacchi. Era più calmo e placido di quello che avrebbe mai sospettato. Iniziò il cammino inverso, dalla coda alla testa, guardando il rettile con attenzione. La coda puntuta, che terminava con una strana e lunga squama nera dai riflessi blu e sembrava di metallo, come una daga. Poi la lunghissima spina dorsale che si sviluppava contorta e avvolta in matasse di spire eleganti per decine e decine di metri, come un’enorme colonia di serpenti. Il corpo, le quattro zampe, le immense ali da pipistrello ormai rattrappite e chiuse, flosce come la velatura di un albero di vascello spezzato, ed infine il lunghissimo collo torto e avvolto e l’immensa testa. Da dove era, quando invertì la marcia, doveva camminare molto per tornare dall’altra parte, all’altra estremità. Mentre lo faceva apprezzava i colori della livrea. Le squame che, viste da lontano, mentre volava, gli davano un imprecisabile colore unitario, erano tutte di tinte diverse, alternate con una sontuosa geometria cromatica, grosse come tegole, dure come acciaio, anche di più. Chissà perché proprio quei colori, rosso vivo, rosso mattone, violette, bluastre e giallognole scendendo verso il ventre. Chissà da dove venivano, chi gliele aveva date quelle sfumature, che genitori, di che tipo, quando. Anche lui sapeva tutte le decine e decine di teorie e storie sui draghi, iniziò a ricordarle. Era uno studioso, sapeva quali venivano dalle culture antiche, per lo più norrena e germanica, e quali erano interpolazioni o varianti moderne delle stesse, quali completamente nuove ed inventate e le classificava tra verosimili e inverosimili. Forse, dopo tutto, al momento attuale lui era il più grande conoscitore di bestie del genere nel mondo intero, di certo non solo l’unico ad averne accoppata una, ma anche quello che la aveva vista più da vicino. Passò in prossimità a dove il drago aveva ricevuto la ferita esiziale, il sangue era uscito copioso e aveva formato una grossa pozza da una parte del campo. Gli girò attorno senza toccarla. Forse sorrise impercettibilmente mentre pensava a che intrico di affermazioni esistesse già solo rispetto alla natura e gli effetti del sangue di drago. Secondo alcuni sarebbe corrosivo, secondo altri velenoso, anche solo al contatto; altri invece dicevano che conferiva forza e poteri smisurati e bisognava ingerirlo; altri ancora che il bagno nello stesso rende invulnerabili; altri che sia il contatto, sia l’ingestione di esso, anche in quantità minime, per esempio leccando una lama che ne sia macchiata o incrostata, faccia comprendere tutti i linguaggi umani e animali; secondo un’altra versione si diventerebbe capaci di percepire i pensieri della gente e secondo altri ancora porterebbe alla pazzia e alla demenza, oppure riparerebbe dall’ultima maledizione del drago. Lui, per prudenza, non ne voleva sapere di avere doni o perdere il senno o la vita. Era scuro, denso, di un intensa tinta granata che sfumava nel nero. Quando aveva infilato la spada e poi l’aveva tirata via era uscito un fiotto copioso, con un getto a spruzzo lungo e uniforme che gli era passato oltre, ben sopra la testa, per la pressione. Un fiume si sangue denso come petrolio di Brent. Forse qualche goccia lo aveva pure investito, ma non se ne era accorto, e di certo non notava effetti o anomalie, né su di lui, né sulle sue armi, che ne erano impastate. Proseguì girando comunque a largo di pozza e rigagnolo. Il corpo disteso di lucertola era alto più di lui ormai, le zampe erano come tronchi, artigliate, e da lì sotto non distingueva più le creste nere simili a metallo lucido che lo ricorrevano tutto al centro del dorso. Dopo qualche lungo minuto era arrivato fino alla testa, tornando oltre a dove era stata piantata la spada che gli aveva dato la morte. Certo una bella beffa! Resistere a tutto, devastare ogni cosa, umiliare e prostrare l’umanità per anni rendendo risibili tutte le armi inventate, le più potenti e sofisticate, e poi perire per un colpo di spada, classico, banale, una stoccata sola, e data da uno come lui, che non era mai stato nessuno. E poi, crollare lì, su un campo qualunque, di passaggio tra una città e un’altra, per essersela presa con un unico poveraccio in viaggio a piedi. E senza che ci fosse neppure uno straccio di spettatore ad ammirare il duello! Bah, non mancava certa ironia dopo tutto, schiattare di colpo per aver ingaggiato una contesa così misera, contro un individuo solo, scalcagnato, una cosa che non era nemmeno nello stile di quel grande rettile vanaglorioso e tronfio, che preferiva distruggere in blocco masse di persone, raccolti, eserciti, e grandi città o borghi, essere sempre in tv e sotto i riflettori. Era stata una morte stupida! Sì, stupida era la parola appropriata, perché i draghi, e questo lui e molti lo avevano capito e lo sapevano con certezza, erano creature intelligenti, estremamente intelligenti e scaltre. Subdole, infide, maligne, prediligevano la devastazione fisica e la forza bruta, ma erano in grado di pianificare, ascoltare, interpretare, comprendere. Dotati di sensi e udito finissimi, secondo alcuni erano anche in grado di comunicare col pensiero. C’era chi diceva di averci dialogato, e, secondo una teoria che prendeva piede, era per questa ragione che si conosceva il suo nome proprio, era lui a dirlo a molti mentre distruggeva tutto: “Io sono Tristiferione il possente, e distruggerò tutto!”. Molti avevano riferito di aver ascoltato quella frase formatasi nel loro cervello mentre il drago imperversava. Crudeli all’infinito, il godimento dei draghi, ammesso che di una specie si tratti e non dell’unico esemplare, parrebbe essere non tanto, o non solo, quello di provocare macerie e devastazione nell’immediato, morti e perdite, ma anche quello di suscitare il terrore, divenire famosi, celeberrimi, e per questo lasciano sempre in vita qualche spettatore, che possa raccontare le vicende. Così selezionano le vittime, e spesso ci giocano a lungo prima di finirle. Alcuni giuravano di averlo sentito e visto ridere mentre distruggeva tutto e gli umani sotto di lui si disperavano ed urlavano. Amanti della sofferenza altrui, preferiscono golosamente prendersela coi bimbi, i giovani, per gettare i superstiti nella disperazione più assoluta facendoglieli seppellire. Preferiscono uccidere persone attaccate alla vita, benestanti, sane, felici. Non si contano tutti coloro che nella sua recente attività Tristiferione aveva incenerito o dilaniato. Con calma Radagasto fece un giro attorno alla testa, era immensa, il suo teschio da solo quanto sarebbe potuto pesare, o valere? Quanto avrebbero pagato per poterlo esporre scarnificato, o imbalsamarla tutta la testa? Che muso orrendo! Denti aguzzi e lunghi come coltelli da cucina, una bocca quasi da coccodrillo, ma spropositata, rimasta chiusa storta, in una smorfia che aveva del beffardo, con una lingua da serpente che era ancora parzialmente fuori. Una volta ricevuto il colpo il drago era rimasto sorpreso, non se lo aspettava, e aveva tirato fuori un suono sordo, cupo, come di chi si liberi di un bel pezzo di catarro dai polmoni con un solo sonoro e profondo colpo di tosse. Lui invece aveva gettato una ultima scomposta e inutile fiammata, rivolta al nulla del cielo. Per un istante vi era arso e brillato un piccolo sole abbagliate che risplendette chiaro anche nell’azzurro di un afoso pomeriggio estivo. Poi si era schiantato fragorosamente a terra senza muoversi più. Certo che era rimasto sorpreso! Secondo alcuni, e forse ora sarebbe anche possibile dar loro ragione, un drago non solo non è invulnerabile, ma ne ha anche consapevolezza. Nonostante la loro estrema intelligenza, alcuni dicono addirittura onniscienza, ignorano cosa di preciso potrebbe farli perire, ma sapendo che il rischio è minimo, praticamente inesistente, a volte non se ne curano troppo, pur essendo per natura sempre diffidenti e vili. Al contempo, nella loro estrema arroganza e vanità, tracotante fino a divenire noncurante dei pericoli, amano le sfide, soprattutto quelle dove pensano di poter vincere senza problemi. Tristiferione trattava tutti allo stesso modo, grandi e piccoli, tanti o pochi: con supponenza e ostentando superiorità. Non aveva avuto il tempo nemmeno di chiudere gli occhi. Eccolo lì, ne vedeva solo uno, l’altro era uguale, ma dall’altra parte del capo: aperto spento, scuro, con una pupilla da serpe, gialla, crudele, inespressiva. No, forse inespressiva no! Un bulbo oculare come un cristallo, limpido, lucido, ipnotico, se ne carpiva la smisurata crudeltà e tutto l’odio per qualunque essere vivente. Ricordò. Una leggenda diceva che è impossibile uccidere un drago, sbagliato! Un’altra che è impossibile sopravvivere a uno scontro diretto contro un drago, sbagliata anche questa. Una terza era più enigmatica, diceva che seppure riesci a ucciderlo, il drago ti ucciderà ad ogni modo. Anche questa terza pareva essere erronea. Radagasto però al riportarla su dalla memoria, si tocco tutto, come se cercasse indizi di qualcosa che non andava, e conferme di essere ancora in carne ed ossa. Sì, non c’era dubbio, era andato tutto bene! Era appena un po’ abbrustolito in alcuni punti, i polpacci, le ginocchia scottavano un po’, e pure gli avambracci, i vestiti ancora fumavano. Aveva preso qualche botta rotolando e cadendo, ma non c’era dubbio, non stava morendo, nulla peggiorava, anzi si sentiva tutto sommato in gran forma. Forse meno euforico di quello che chiunque si sarebbe aspettato, vista l’impresa realizzata, degna di canti, a dir poco, ma lui sapeva bene di non essere portato per l’euforia. Colpa del drago se era morto, avrebbe dovuto lanciare subito una fiammata delle sue, potente e perentoria, definitiva. Lui sarebbe caduto, si sarebbe disfatto tutto in cenere nel volger di un battito di cuore. Invece aveva tentato di sbruciacchiare lentamente il malcapitato godendo delle sue urla di dolore, e di afferrarlo con gli enormi artigli per scarnificarlo poco a poco fino alla morte. Si era cercato da solo la reazione, e gli era costata la vita. Certo, iniziò a pensare l’eroe, ora la sua di vita sarebbe molto cambiata, dopo un tale successo, quando gli altri lo avessero saputo, sarebbe cambiato tutto. Era sempre stato per i fatti suoi, a studiare, a prepararsi per qualcosa che pareva non avesse senso, chi lo conosceva lo prendeva pure per matto. Dicevano che vaneggiava, insistevano nel dirlo anche quando ormai anche tutti gli altri erano impazziti, per il dolore, per le perdite, l’ansia di vedere apparire il drago. Era cambiato tutto in poco tempo e da tanti anni. Ed ora di colpo era finito tutto allo stesso modo. Merito suo! Avrebbe smesso di essere povero! Di essere solo, ignorato da tutti, trasparente. Solo raccontando la sua storia in tv, o vendendo la carcassa, o per la gratitudine di tutti gli abitanti della terra, sarebbe diventato multimilionario, famosissimo. Tutti, alla fin fine, gli dovevano qualcosa, o meglio, gli dovevano moltissimo, altro che! Fino ad allora non se lo era mai cacato nessuno, invece! Già a partire dal nome appariva come un tipo bizzarro, anomalo, suscitava certa ilarità, prese in giro, le trite ritrite ironie ripetitive di persone senza creatività e ingegno. Era stanco della gente, ecco perché se ne stava per fatti suoi. Radagasto! Ma che nome è? Era pure comprensibile che la gente ci motteggiasse su. Una adattamento italiano di Radagast il bruno, il confratello di Gandalf il grigio, nel Signore degli Anelli. Il padre era un freak di Tolkien e gli aveva messo quel buffo nome adattandolo però all’italiano perché non sopportava i nomi di persona che finiscono per consonante. Era già tanto che non lo avesse chiamato Gandalfo, o Boromiro! Che schifezza! Ma al padre piaceva questo enigmatico personaggio rinunciatario, e aveva voluto rendergli omaggio. Glielo diceva sempre fin da bambino, Radagast era un bel personaggio, che sfugge alla sua missione e si ritira in pace in contatto e simbiosi con la natura. Certo altri personaggi erano più famosi, più gloriosi, ma dopo tutto sarebbe stato da pretenziosi mettere a un umano di oggi, uno che non contava nulla come lui, un nome di antichi eroi. Il padre era proprio convinto che fossero esistiti davvero. Sarebbe stato irriverente, nessuno potrebbe mai permettersi di portare un nome come Boromir, Glorfindel o Denethor. Radagast invece andava bene. E lui aveva preso anche la sua parte, anche lui si era appartato tutto sommato, tra le sue passioni, i suoi studi, in certa solitudine. Poi di colpo una avventura in stile fantasy lo aveva portato a vivere quello che pareva fatto apposta per il suo nome, ed ora eccolo lì, con quel cadavere immane vicino. Era perplesso sul da farsi, ancora incredulo anche del suo stesso successo. Guardò attentamente la pupilla da ofide del mostro, era così spaventosa, ma magnetica. Si pose delle domande quasi stesse cercandone la risposta nel cristallo oculare. Che sarebbe successo ora? Che avrebbe dovuto fare? Cercare qualcuno, spiegare l’accaduto, magari dicendo: “Ho ucciso il drago, venite a vedere, con questa spada l’ho ucciso!”. E chissà, allora ci sarebbe stato un tripudio, balli, feste, tanto per cominciare, piccoli onori già lì sul posto, in campagna. Poi sarebbe arrivata la tv, la stampa, e sarebbe di certo diventato famoso, un eroe, amato e ammirato. Già si vedeva, tutto ben vestito, ricco e felice, acclamato e rispettato da tutti. Basta lavori precari, basta vagare insensatamente e dormire in tenda, da adesso in avanti avrebbe viaggiato comodo, e senza spendere un soldo. Chi avrebbe osato far pagare, o prendere soldi dall’uccisore del drago? Se anche qualcuno ci avesse provato era certo che tutti gli avrebbero ricordato che se la sua stamberga era in piedi ed al sicuro era merito suo e bisognava dare riconoscenza a lui, a Radagasto l’ammazzadraghi. In un certo senso non è che si sentisse troppo preparato per tanta popolarità però, gli venne un groppo in gola. Iniziò a sembrargli assurdo non tanto che avesse ottenuto un successo, quanto il fatto che per avere un po’ di considerazione dagli altri avesse dovuto attenderlo. Prima nulla di nulla, la maggior parte degli esseri umani e di certo non i peggiori naviga nell’indifferenza degli altri. A lui? Niente offerte di lavoro, poche donne, pochi amici, pochi beni. La vita classica di un piccolo centro, dove tutti conoscono tutti e trattano il prossimo solo in funzione di quello che possono ottenere da lui. Il mondo è degli opportunisti, pensò. Quanto più ricco tanti più salamelecchi, e viceversa. Sarebbe stato proprio squallido dover vedere gente con la quale si incrociava da una vita, ma che non gli aveva mai mostrato un minimo di cortesia e apprezzamento, venire a parlare con lui, volerlo conoscere, curiosa adesso, magari arruffianarselo, fare finta che ci si conosceva da una vita e tutto il resto. Magari i vecchi compagni di scuola, o peggio ancora le compagne, quelle che non gli avevano mai prestato attenzione e che andavano a letto con altri. Quelli con la macchina, quelli alla moda. E adesso, invece, magari interessate! Che era cambiato tutto sommato? Questo anche lo irritava un po’ dopo essersi soffermato su quello che gli sembrava il suo autentico significato. Che triste è la gente! Un colpo fortunato e diventi quello che non sei mai stato per nessuno; tutti “ti scoprono”, come se non ti avessero mai avuto davanti agli occhi. Non conta nulla che fossi già da prima disposto a lottare coraggiosamente! A lui gli avevano sempre detto che era da matti girare bardato così, con la spada, nella speranza di farla finita col grande distruggitore laddove non c’erano riusciti nemmeno i caccia o i droni. Gli davano del matto, non dell’eroe, nemmeno potenziale, o intenzionale. Beh, si dovevano ricredere! Ma dopo tutto, perché pensare alla gente che aveva conosciuto lì dove viveva? Era plausibile che sarebbe andato a vivere altrove, lontano, questa volta allontanandosi lui da tutto quello che lo aveva circondato in quel quotidiano che era sempre stato pieno di personaggi un po’ viscidi, ogni volta così vicini e così lontani al contempo. Chissà ora quanti amici avrebbe avuto! Una gara per conoscerlo, parlare con lui, questo sarebbe successo! Si sgomentò ancora un po’, decisamente sentì di non avere tutta questa voglia di parlare ed essere popolare, o per lo meno non tra gente che non gli avrebbe mai detto una parola se non avesse infilato quella spada su per il cuore della bestia. Una botta di fortuna e basta! Gli pareva impossibile di esserci riuscito, si sentiva come se un Dio greco gli avesse guidato la mano, immergendo la lama fino all’elsa, dandogli poi pure la forza di estrarla di nuovo. Non sentiva fosse merito suo. Forse lo attendeva una vita, un prosieguo, di falsità ed ipocrisia, di superficialità e opportunismo. Ci pensò un po’ su. Anzi, forse le cose sarebbero andate anche peggio. Fino a lì aveva formulato pensieri fin troppo ottimistici. La verità è che nessuno lo aveva visto uccidere il drago, probabilmente a tutti sarebbe stato evidente che le sue affermazioni erano vere, bastava poco per esserne certi, ma forse avrebbero preso a pretesto la loro assenza e l’assenza di qualunque altro testimone oculare per seminare dubbi, sospetti, con lo scopo di non dover dare nulla a nessuno o magari anche peggio di usurpargli la gloria. Già gli pareva di vederlo! Gente che se ne era stata comodamente a casa, o attori, o impostori, pronti a rivendicare l’impresa, a raccontare in tono suggestivo storie inventate, ma che il pubblico avrebbe voluto ascoltare. Ben confezionate, e non acide, smorte come le sue. Era probabile che una multinazionale dell’informazione avrebbe tirato fuori un personaggio, un pupazzo manovrabile e belloccio che avrebbe preso il suo posto, vissuto la vita che sarebbe legittimamente spettata a lui. Ricordava bene che prima dell’avvento del drago tutto era falsità e equivoco. Paradossalmente le cose erano un po’ cambiate solo dopo l’arrivo degli incendi e le devastazioni. Il drago era riuscito a riportare un po’ di bisogno di verità e di autenticità nelle cose. Sulle sue sfiammate non si poteva scherzare, era inutile anche ricamarci o fare allarmismi, di allarme ce ne era già a volontà. E di certo sarebbe pure uscito dalla botola qualche politicante vecchio stampo. Se ne stavano da anni tutti in silenzio, acquattati e rintanati per bene in posti inaccessibili per salvare le chiappe. I Governi avevano praticamente smesso di esistere, erano stati sostituiti da comitati di cittadini appena le cose si erano messe male davvero. E i politicanti, si diceva che si fossero fatti fare in fretta e furia dei rifugi sotterranei nella speranza che il drago non li scovasse e facesse a pezzi. Di certo ci sarebbe riuscito se avesse voluto, quindi, come ratti, erano spariti dalla circolazione in silenzio, sperando di essere dimenticati alla svelta. E difatti ci erano riusciti! Lui al riportarli alla memoria si rese conto di quanto tempo fosse passato dall’ultima volta che li ricordava. Non gli mancavano affatto. Beh, di sicuro sarebbero tornati in pompa magna. Ciascuno dicendo stronzate sul “grande appoggio dato a questo coraggioso giovane pieno di talento...” o “lo sforzo profuso in un momento di grande disperazione, nel quale non era però mai mancato il sostegno a chi poi si è rivelato tanto decisivo...” e vattelappesca che altre frasi stupide e del cavolo alle quali molti cittadini avrebbero di nuovo preso a prestare attenzione. Era convinto che se avesse detto quello che pensava di loro, delle loro frasi, della loro fuga, della loro inutilità e tutto il resto lo avrebbero tolto di mezzo senza pensarci su. E anche loro avrebbero appoggiato qualche attorucolo docile scelto dal mondo dell’informazione e lì sarebbe finito tutto. C’era proprio di che essere allegri! Ecco chi aveva salvato! Una massa di rincoglioniti distratti chiamata popolo, acritici, egoisti, incapaci di dare un giudizio decente a priori, ma sempre disposti a seguire pedissequamente il divenire degli avvenimenti ex post e a farsi suggestionare. Una serie di multimilionari bugiardi e cinici, impegnati a creare e distruggere verità e menzogne e tutti i loro servi abietti. Ed infine una pletora di cialtroni vigliacchi e opportunisti capaci solo di ingozzarsi nella prosperità e darsela a gambe levate nel momento del bisogno. Era una visione proprio amara, ma gli pareva la unica veramente autentica, e pensava che un eroe, ammesso che lui lo fosse, non poteva mentire a se stesso. Guardò ancora l’occhio con la pupilla ogivale della povera bestia che giaceva al sole estivo. Per un momento i suoi sentimenti parvero mutare rispetto al significato della sua sconfitta. Tutto sommato non aveva avuto tutti i torti il drago ad odiare e detestare l’umanità, facevano quasi tutti pena o schifo. L’uomo è nemico di se stesso. Ad essere onesti del tutto sentì che neanche lui lo aveva mai amato davvero, altrimenti non se ne sarebbe appartato con tanta maniacale e costante perizia. Mannaggia! Ad averci pensato prima, ad averla vista subito così la faccenda si sarebbe risparmiato non solo il duello e l’uccisione, ma pure tutte le fatiche previe, allenarsi con la spada, spendere i risparmi per trovarne una decente, vagare per poter avere l’occasione di ingaggiare battaglia con la bestia. Erano anni che non si fermava e faceva una vita scomoda. A vederla in modo corretto quel drago, pur con tutto il suo odio, a lui aveva dato più dei suoi simili. Nessuno si era mai soffermato su di lui, e invece il drago sì! Stava volando, vede uno, in basso, vestito come uno strapezzente che agita una lama di un metro e mezzo, sbraitando altisonanti parole di sfida alla maniera cavalleresca e invece di mandarlo al diavolo pisciandogli in testa dall’alto, e proseguire per il suo viaggio verso la prossima devastazione, inizia a scendere a spirale, gli si mette dinanzi, colossale, e ascolta tutto quello che l’altro ha da dire. Nessun suo simile avrebbe concesso tanto. Certo appena smesso di ingaggiar tenzone lo aveva mezzo abbrustolito con uno sputo di fiamma, ma d’altra parte era quello che lui andava cercando. Avrebbe dovuto spendere i suoi ultimi risparmi in birra, al pub, invece di razionare tutto per fare una specie di vita paramilitare dell’accidente in cerca di una gloria concessa da una massa di deficienti e che forse addirittura non avrebbe mai avuto. Aveva salvato la specie animale che non andava salvata. Il drago aveva fatto tutto per il meglio invece, era riuscito addirittura a nobilitarla un po’, schiacciandola così sotto la morsa del terrore. Di colpo si scosse, si sentiva davvero affranto, aveva fatto un grandissimo errore a piantare quella spada nel grande cuore di quel grande animale. Sentiva di aver ucciso l’unica creatura verso la quale avrebbe dovuto provare affetto e amicizia, per salvare una massa di persone nemiche e ostili, brutali. Era disperato! Se avesse potuto sarebbe senza dubbio tornato indietro. Gli avrebbe ridato la vita, accidenti! Augurato di vivere per secoli e secoli e di vessare per tutto il tempo l’umanità o di estinguerla del tutto. Solo lui sarebbe potuto essere il riscatto alla schifosaggine della bestia uomo, ed ecco che fine aveva fatto: ucciso da un pezzente! Non voleva vivere con quella vergogna addosso, con tanto rimorso. Guardò ancora una volta l’occhio enigmatico e lucido del drago, era bellissimo, privo di pietà, privo di esitazioni, forse anche privo di falsità, lui sì, eroico. Quantomeno sincero nella crudeltà e nell’odio. Radagasto ormai sentiva di non volere né rimorso, né onorificenze false, tantomeno la pazzia per dover contemplare impostori godersi la sua vita, nulla del genere. Voleva solo fare una scelta “da drago” chiara, univoca, spietata. Si decise, sapeva che fare, sfilò la spada da terra, la girò e piantò l’elsa tra terreno e testa del drago, poi respirando forte ci si gettò sopra spaccandosi in due il cuore. Il dolore gli fece vedere una forte luce bianca, e sentì chiaro l’arrivo della morte. Accasciandosi a terra gli parve di recuperare parte dei sensi, prima di perderli di nuovo e definitivamente. Il dolore lancinante aveva lasciato il posto al freddo e a certa calma, e gli parve che l’occhio del drago non fosse più cristallino come prima, che fosse chiuso. Non lo seppe mai.
Quando ignari passanti per caso videro da lontano la carcassa del drago stesa sul campo e diedero la notizia, i primi avventori si trovarono dinanzi a una stranissima scena. Il drago era stato ucciso, pareva incredibile, ma era successo e con un colpo di spada, come nelle storie cavalleresche. Giaceva inerte e marcescente con la lingua fuori, la bocca semi aperta e gli occhi chiusi, ma quel che era più sorprendente ancora era che colui che, senza dubbio, aveva realizzato quella mirabile impresa, giaceva inginocchiato di fianco alla sua testa enorme e si era dato la morte con la stessa arma con la quale aveva trafitto la bestia. Il drago fu esposto al pubblico. Lui invece lo tolsero da lì, lo ripulirono, composero, portarono in solenne corteo funebre affinché tutti conoscessero la sua strana storia e gli rendessero il meritato onore che non aveva avuto in vita. Miglia, poi centinaia di migliaia, poi milioni di persone gli resero omaggio gettando un fiore sul suo tumulo sulla collina dove aveva sconfitto eroicamente il flagello del mondo. Tutti salutarono con affetto sincero il loro salvatore che non avrebbe mai raccontato la sua storia, e piansero per lui. Presto tutti i media non parlarono d’altro, tutti i rappresentanti dei governi gli dedicarono scuole, palazzi, ponti, statue, persino città. Una intera generazione di figli prese il suo nome, che divenne popolarissimo. Ma forse tutto questo avvenne solo perché era già morto.